Per me il PCI è durato due anni in termini di tessera, qualche anno in più nella sua variante giovanile alla quale mi iscrissi a quattordici anni, per sempre nel sentimento politico profondo.
Frequentavo la sezione Gramsci di Cappella dei Cangiani, residenziale, terziaria, ospedaliera.
Gli operai, categoria dello spirito comunista fu qui per me frantumata dalla sostanza dei due unici rappresentanti, uno di mano lunga con le compagne, l’altro che, in occasione dei congressi di sezione, leggeva “senza espressione” gli interventi scritti per lui da un compagno ferroviere.
Il pomeriggio, dopo i compiti, mi ritrovavo lì con uno sparuto gruppo di ragazze e ragazzi (ricordo che a un certo punto ci consentirono di usare lo scantinato per suonare e sviluppare foto) e un altrettanto sparuto drappello di pensionati/e, capitanato dal novantenne compagno Prisco. Di lui ricordo nitidamente il volto preistorico, l’intransigente bastone con il quale ci imponeva compostezza di seduta senza dondolare sulle gambe posteriori delle sedie, e l’urlo sdentato con cui accompagnava la diffusione dell’Unità la domenica mattina, fuori alla sezione “Compagni, importante leggerlo: l’Unità!”.


Ma la figura carismatica che dava forma a quei pomeriggi del mio romanzo di formazione era Vittorio de Franciscis, ematologo, microbiologo, ricercatore, primario di laboratorio, cardiologo teorico (la sua sordità era d’ostacolo alla pratica clinica), insegnante nei corsi serali tenuti in sezione. Un uomo eclettico, dalla conversazione brillante, ancorché monologante, che spaziava da Čechov alla matematica, dalla TBC alla filosofia marxista. Era cresciuto nella mia stima come un gigante, finché un giorno, commentando su mia insistenza un episodio di raccomandazioni che mi aveva scandalizzato, affermò che era giusto così, che le cose funzionavano in quel modo, che non era certo il migliore, ma che comunque fare gli idealisti a oltranza avrebbe solo tenuto fuori “i nostri”, mentre era assolutamente necessario esserci, nei posti che contano e ovunque, fino a fare massa critica. Non so quanto avessi bisogno di quella doccia di realismo, ma tant’è.
Quando la sezione cominciava ad affollarsi di compagne e compagni che avevano finito di lavorare, cioè quando il gioco si faceva interessante, io dovevo tornare a casa per cena.
Ovviamente, anche se avevo quindici o sedici anni, dovevo leggere, volevo leggere Rinascita, ricavandone il più delle volte un colossale senso di frustrazione. Mi sembrava di non capire nulla. I rimandi a un universo politico, storico, esperienziale a me ignoto erano troppi. Come le formulazioni discorsive che intuivo essere ordinante in un codice di cui, però, non avevo la chiave. Assillavo mio padre, Vittorio, i compagni e le compagne più grandi perché mi spiegassero, mi aiutassero a comprendere. Mi resta ancora netta la scomoda sensazione di insufficienza di cui mi sentivo responsabile, senza l’attenuante dell’età che è nozione necessariamente postuma. Però, continuavo a leggere. Un bell’allenamento, alternato alle attività materiali, dal volantinaggio al servizio ai seggi, al tesseramento. E ai grandi momenti, la campagna referendaria contro l’abrogazione del divorzio nel ‘74, la vittoria alle amministrative di Napoli e l’elezione a sindaco di Maurizio Valenzi nel ’75, la Festa nazionale dell’Unità nel 1976.


Nel 1977, l’epifania dell’austerità di Berlinguer. Quella volta capii tutto. Il suo pensiero, l’articolazione stessa che lo ordinava mi catturarono come un’agnizione. Riconoscevo nella elaborazione del suo ragionamento la forma esatta della materia informe che stava dentro di me. Rimava al bacio con una mia certa sobrietà spontanea, dandole senso e dignità ideale. Una prosa bellissima, quella di Berlinguer, non retorica, eppure evocativa, coinvolgente (“…per trasformare la nostra società si tratta di… inventare qualcosa di nuovo che stia, però, sotto la pelle della storia, che sia cioè maturo, necessario”). Capivo tutto, perché mi sembrava addirittura ovvio che l’austerità fosse proposta come agente di trasformazione opposto al consumismo, allo spreco, allo sperpero, all’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati. E tra gli sprechi più gravi, contro cui sperava di suscitare il necessario movimento di opinione e di massa, metteva quelli di imprevidenza che avevano causato errori gravissimi nella “politica del suolo, del territorio, dell’ambiente; o la trascuratezza nel campo della ricerca”. E poi indicava con chiarezza e puntualità gli obiettivi che il PCI doveva porsi per uscire, ribadisco uscire, dalla logica capitalista, tutti ancora non solo validi, ma sufficienti a definire il riferimento ideale di un partito con un’identità forte, un partito necessario.
Forse quella svolta di Berlinguer non era ancora “sotto la pelle della storia”, la declinazione di austerità che prevalse fu quella governativa e i costi furono sopportati, come sempre, dai più deboli. Di lì a poco, l’avvento di Margareth Thatcher e poi di Ronald Reagan avrebbe spianato la strada con la deregulation al liberismo più sfrenato, mentre i Chicago Boys imperversavano già in Cile. No, non era il tempo.


Nel 1978, ormai maggiorenne, fui eletta nel direttivo di sezione. Anzi no, fui cooptata (una prassi assai comune all’epoca) e quasi simultaneamente inserita nella commissione femminile. L’anno dopo non rinnovai più la tessera, preferendo una militanza più libera (era così che la sentivo allora) nell’ARCI e nel movimento femminista.
Concludo con una piccola notazione sentimentale che mi sembra renda bene il peso che nella mia vita ha avuto il PCI: nella sezione Gramsci ho conosciuto entrambi i miei mariti. L’aneddoto riguarda il secondo (e definitivo) con il quale ci siamo rincontrati molti anni dopo. Al suo primo matrimonio, nel 1976, era stato testimone, come usava, il segretario della sezione, Carlo de Marco, mio padre.

Iaia De Marco



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4 commenti

  1. È incredibile come la prosa di Iaia De Marco ti proietta nel mondo che descrive e vivere le emozioni come fossi presente, come nel film, se ricordo bene il titolo Midnight in Paris.

  2. Grazie Iaia, mi hai fatto RIVIVERE cosa? TORNARE A NUOVA VITA. Grazie ed io beata sto riflettendo e ricordando la mia esperienza del PCI nella mia cara e belle Napoli.

  3. Beh, Iaia (Rosaria) la cooptammo quando ero segretario della gloriosa Gramsci di Cappella dei Cangiani. Era già visibilmente indomita e indomabile, dotata di spiccata personalità, condita dall’essere “figlia d’arte”. Anni tumultuosi, la sezione luogo di molteplici attività e iniziative e di intense relazioni umane e politiche. Aggiungerei alla galleria dei “grandi” Antonio Costanzo, un uomo straordinario, responsabile della cellula del Monaldi, ospedale pneumologico dei malati di tubercolosi, di cui faceva parte Tonino.

  4. Grazie per lo schizzo, veloce e pungente, sulle aspettative e le prospettive di una militante pci anni ‘70, da una angolazione semi-periferica, la sezione Gramsci. O meglio, la cellula-sezione, dovrebbe definirsi.
    Vi aveva sede, oltre alla sezione Rione Alto, la cellula del Monaldi ; e per questo Vittorio de Franciscis la frequentava.
    Io ho solo partecipato saltuariamente nei primi anni ‘80 e ancora adolescente, prima di virare altrove, sedotto dalle sirene della sinistra extraparlamentare, in versione anarchica.
    Ma conoscevo molto bene Vittorio, lui mi portava qualche volta in sezione; e frequentava giornalmente la mia famiglia, fino agli ultimi giorni (febbraio ‘97).
    Tante cose da raccontare su di lui. Dell’impegno – per nulla periferico – negli anni 50-60 , al distacco degli ultimi anni, dopo la scissione (con adesione a Rifondazione e lettera di dimissioni alla sezione Gramsci) , non senza tracce di stanchezza esistenziale. Sebbene sorretto da una incrollabile fede – il socialismo verrà comunque, per quanto più lontano nel tempo.
    Propriamente era tisiologo – con libera docenza. Con successiva specializzazione in cardiologia. Poi, per la sempre più accentuata ipoacusia, divenne primario del Laboratorio allo stesso Monaldi.
    Oggi sembra dimenticato. Malgrado la non irrilevante menzione nel libro di Ermanno Rea ‘mistero napoletano’ . Libro che non gli piacque. Parlando con me, definì l’autore un pettegolo e un ignorante : perché non aveva assolutamente messo a fuoco la reale dialettica politica di quegli anni ; e perché voleva caricare di significato politico un gesto scaturito da ragioni personali.
    Comunque mi riprometto di delineare un ritratto più ampio di Vittorio. Un ritratto completo, ma per frammenti.

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