Mi rendo conto, nel momento in cui mi accingo a scrivere di questo appassionato libro di Gianfranco Nappi, che non è facile per me parlare del percorso, e anzi attraversarlo, di un compagno a cui mi lega qualcosa di più rispetto al già così importante cum panis, che accomuna, come scriveva Mario Rigoni Stern, coloro che mangiano lo stesso pane, condividendo anche l’esistenza. Questo qualcosa in più attiene a un valore di fraternità, o di fratellanza (esattamente come si usano questi termini fra gli africani, o gli afroamericani, frère o brother). Compagni e fratelli, quindi, in questa grande e chiassosa famiglia comunista italiana del 900. Vorrei aggiungere, senza civetteria, che poi il nome composto Gianfranco a me è particolarmente caro, il nome di mio padre che, insieme a mia moglie Andrea, ho voluto dare a mio figlio.


C’è stata quindi una comunanza di sentimenti, un comune sentire, come si diceva una volta, che ci ha visto vicini in un’esperienza della formazione (come fu quella della nuova FGCI, nata a Napoli all’inizio del 1985), lontani nelle esperienze di partito dopo la svolta di Achille Occhetto, e ritrovatici dopo un lungo errare, e qualche errore, quando dopo l’esperienza di direzione politica a tempo pieno, ci siamo re-inventati in una dimensione sociale e civile. Gianfranco in quella dell’alimentazione di qualità e di una bio-agricoltura, e io in quella dell’arte e di una sorta di fabbrica di cultura.
Parto allora dal titolo, in cui c’è tutto Gianfranco Nappi. Dedicato al PCI, in qualche modo alla nostra seconda famiglia, dopo quella biologica, che ci ha accolto, formato, condotto alla lotta, allo studio e all’impegno.
Nappi e il sottoscritto, e non solo noi, facciamo parte di una “generazione di mezzo”: troppo giovane per aver fatto il ‘68, e per prendere la guida del PCI, e dei suoi eredi dopo il crollo del Muro di Berlino; troppo matura per essere il possibile ricambio generazionale di quei dirigenti che, senza soluzione di continuità, dall’89 alla facile conquista del Partito Democratico da parte di Matteo Renzi nel 2013, avevano occupato la scena senza lasciare spazio ad altre generazioni. Colpa nostra, intendiamoci, quella di non riuscire a soppiantare la generazione del ‘68: nessuno lascia il potere e il comando volentieri. Ma in questo essere “di mezzo” c’è stato anche il privilegio di poter imparare più che dai nostri fratelli maggiori, da grandi maestri del passato (in queste pagine il tributo di Nappi a Pietro Ingrao, a Luciana Castellina e, soprattutto, anche per me, a Aldo Tortorella e a Alessandro Natta) e contribuire a formare una parte dei giovani, o di coloro che lo erano, che ancora costituiscono l’ossatura della sinistra diffusa nei territori.


Nappi non condivide né la tendenza, a cui la generazione precedente la nostra ha ceduto, di rinnegare il passato da cui veniamo o, anche quando lo si rivendicava, di trovare in esso le giustificazioni storiche e ideali per un progressivo slittamento moderato e senza identità; né quella di molte esperienze alla sinistra del PDS-DS prima, e del PD poi, di avere un approccio nostalgico, come se le lancette della storia potessero essere riportate indietro. In queste pagine si coglie l’ossessione per un nuovo spirito critico, l’apertura all’innovazione, che Nappi sperimentò come responsabile nazionale di queste politiche alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso, la ricerca di nuovi orizzonti (come quelli dell’agricoltura biologica, del latte nobile, di un’alimentazione sana e equilibrata, fino allo sforzo per dare a Città della Scienza un forte profilo umano).
Per fare tutto ciò la grande intuizione avuta quattro anni fa, di dar vita ad una rivista, Infiniti Mondi, che fosse un luogo di incrocio di saperi e competenze, con una forte radice locale e con una proiezione mediterranea e globale, è forse uno dei traguardi più importanti e più maturi di Nappi. Un figlio del PCI, che mette insieme mano e mente. Un tenacissimo organizzatore culturale che studia, scrive, pubblica, coinvolge esperienze e menti brillanti a fare altrettanto, dà gambe concrete ad un’esperienza collettiva.
Il percorso di questa rivista è tracciato negli scritti ripubblicati nella seconda parte di Dedicato al PCI, e nell’ultima, dove Nappi compone un essenziale scaffale di volumi di critica della società e del mondo, con autori globali e locali.


Merita, naturalmente, una menzione a parte lo scritto inedito “appunti sulla sinistra, sul PCI, sulla Campania” che apre il libro. Esso racconta com’è stato possibile che, nel volgere di dieci anni, si sia consumata la grande forza popolare della sinistra a Napoli e in Campania. Vanno lette con particolare attenzione le pagine su quanto la vicenda dei rifiuti, negli anni precedenti al 2010, aveva contribuito a far saltare in aria tutti i precedenti equilibri. In Campania sé sperimentato, dopo le incertezze di quegli anni, da Luigi de Magistris a Vincenzo de Luca (acerrimi avversari, ma abbastanza speculari in un’idea del potere e della politica) una dimensione del partito personale e di populismi territoriali che già vent’anni prima erano stati teorizzati, pur in forme meno sguaiate, da Mauro Calise.
Quanto scrive Nappi a proposito della pandemia, e di quanto anche nella dimensione della pur parziale segregazione essa ci abbia condotto a riflettere, studiare, elaborare, mi pare molto pregnante. Al centro c’è il pensiero di Aldo Masullo, poco prima della sua scomparsa: “divertiamoci a smontare idealmente questo o quel pezzo della nostra macchina sociale e a immaginarlo ricostruito come più servirebbe”.
Rimane, sfogliando queste pagine, fino all’ultima, la sensazione di un atto d’amore per la nostra famiglia politica, quella del PCI, pur ora dispersa in tanti rivoli. Le foto, i volantini, i documenti raccolti da Infiniti Mondi, e da tante realtà culturali in ogni parte del Paese, ricostruiscono un rapporto non retorico con quella memoria. C’è il tempo, e c’è il momento per riflettere sugli errori e sui limiti di quella storia. Ma c’è anche il tempo per una dichiarazione di amore e di riconoscenza per quella storia. Anzi: in qualche modo quella storia ha vinto, perché ha attraversato e segnato nel profondo la vicenda nazionale e internazionale, e ha permeato la società fino alle sue pieghe più recondite.
Sapranno le nostre figlie e i nostri figli , e sapremo noi educandoli e trasmettendo loro il senso di quanto fatto, iniziare su quella base una storia nuova, da Francesco alla salvezza del pianeta, dalla radicale parità di genere a una nuova nozione di beni comuni?
Nappi, e io con lui, lo speriamo, e ci batteremo per questo.
Pietro Folena


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2 commenti

  1. E ora di tornare ai “pensieri lunghi ” qualcosa ai nostri figli dovremo pur lasciare ,di tutte quelle che chi ci
    a preceduto a saputo lasciarci .Come ci a insegnato Gramsci quando tutto sembra crollato ricominciare a mettere i primi mattoni.

  2. Davvero bella questa prefazione di Folena, che mescola sentimento e razionalità. Quando questi due elementi ‘umani’ si sono separati, è iniziato il declino del PCI

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