CON GLI OCCHI DELLA MEMORIA


di Alfonso Napolitano
Mostra d’Oltremare, settembre 1976, Festival Nazionale de l’Unità.
Una fatica esaltante ed estenuante per l’esercito dei “compagni” che non si risparmiava. Dalla mattina alla sera ognuno a fare il suo lavoro, perché quella di Napoli doveva essere “la Festa più bella”.
E lo fu.
Il parco di Fuorigrotta, un pezzo di città da molto tempo un po’ negletto, incolto e pieno di erbacce, adoperato ormai per poche iniziative, fu rimesso a nuovo con amore e fatica dai volontari, arrivati da tutta la provincia, i quali liberarono dalle erbacce e dai parassiti il prezioso parco arboreo caratterizzato da alberi d’alto fusto e specie mediterranee e tropicali, importate negli anni ’40 dalle terre d’Oltremare; riattivarono percorsi e fontane (tra cui la monumentale fontana dell’Esedra). E la Mostra d’oltremare diventò spazio e casa accogliente per ospitare le migliaia di “comunisti” (erano, tanti, e tutti orgogliosi dei loro sogni e dei progetti del loro partito) che sarebbero venuti da tutt’Italia per partecipare alla festa, per partecipare a dibattiti, incontri gastronomici, giochi, vedere mostre d’arte. E soprattutto per godersi gli spettacoli musicali e teatrali in programma. Più di cinquanta, messi insieme in un lavoro paziente di costruzione, invenzione, mediazione. Le Feste dell’Unità erano in quegli anni il più grande e importante “circuito dello spettacolo” in cui gli artisti potevano mettersi in vista.


Quarantacinque anni fa. Sembra ieri!
In quel periodo vivevo a Londra, tornavo sempre anche per le elezioni (allora non era possibile votare all’estero), quindi non potevo mancare ad un evento così speciale e unico. La più grande manifestazione politica e culturale a Napoli dal dopoguerra. La prima festa Nazionale che si svolgeva al sud, un avvenimento che riempiva d’orgoglio tutti i comunisti napoletani.
Non potevo far mancare il mio contributo, seppur modesto, che si assommava a quello dei miei amici e compagni di lotta.
Gestivamo il punto ristoro “Stand del Nolano” in un clima di allegria e di complicità. La specialità del nostro chiosco erano i “pioppini”, un tipo di funghi che spargono nell’aria un profumo che apre il cuore con la straordinaria caratteristica di rimanere sempre croccanti, cucinati alla maniera “cafona”, rosolati in olio extravergine d’oliva, aglio, prezzemolo, un pizzico di peperoncino e tirati con un po’ di pomodoro San Marzano. Serviti con salsicce, costolette di maiale o pollo alla brace e teneri panini e un buon bicchiere di vino prodotto alle falde del Vesuvio erano un invitante e irresistibile snack che in brevissimo tempo diventò un punto di riferimento per i visitatori e un “temibile” concorrente di altri stand e persino di stellati ristoranti. Alla bontà del prodotto offerto si univa una allegria, un cameratismo e la voglia di migliorare, abbellire quell’angolo gastronomico ogni momento, e non importava se la festa sarebbe durata solo l’arco di una quindicina di giorni. E fu proprio questo il motivo che mi spinse a prendere alcuni pannelli che giacevano abbandonati in deposito e utilizzarli per rendere più accogliente lo spazio dove erano sistemati dei tavoli per il ristoro. L’idea era quella di realizzare un murales.
Pur non avendo nessun progetto e non avendo concepito nessun bozzetto preparatorio, ero certo però che non avrei seguito l’onda dei murales in voga.
Nel primo decennio degli anni Settanta erano molto popolari i murales nati come strumento di lotta per la libertà del popolo cileno. Erano murales “manifesto” di impatto immediato con funzione anche propagandistica. Dal punto di vista tecnico semplificano con linee geometriche, colori, tratti e contenuti, i grandi capolavori murali messicani di Rivera, Siqueiros e Orozco.
Alcuni di questi murales erano diventati cover che illustravano gli album di cantautori e gruppi musicali cileni, primi fra tutti i Quilapayún e gli Inti Illimani, rifugiatisi in Europa (Italia e Francia in particolare), riusciti a sfuggire dalla morte sicura a cui li avrebbe destinati la ferocia dittatura instaurata dopo il golpe dal generale fellone Pinochet.


Cominciammo dunque con un omaggio alla liberazione e alla determinazione della donna. Piano piano senza nessuna spinta o forzatura il murales cominciò a vivere di vita propria: si realizzò e si completò con il contributo di passanti, visitatori, e curiosi che non resistevano al fascino dei colori e dei pennelli che erano lì, alla portata di tutti.
Contributi estemporanei e assolutamente spontanei dove tuttavia confluiscono segni di appartenenza (bandiere delle sezioni di partito, il “no” deciso all’emigrazione, il viaggio, e non manca l’omaggio alla straordinaria e artistica Festa dei Gigli di Nola); simboli politici e di lotta (mani rosse di sangue in ricordo dello scoppio della fabbrica di fuochi d’artificio “A Flobert” dove perirono 12 operai. Il tragico episodio diventato anche un commovente canto di lotta ad opera del gruppo folkloristico “E Zezi” di Pomigliano d’Arco).
La forma del murale muta la propria struttura e misura spaziale, ma non si discosta dall’immagine, di cui assume l’estensione infinita, la polivalenza, la mutabilità e l’inconsistenza; luce colore, in quanto materia, non sono essenza ma esistenza.
Un concept pittorico in cui tutti i contributi concorrono a dare un significato nel loro insieme ed esprimere un’idea di leggerezza e luminosità, ma fortemente motivata dal credo politico. Tutto ruota attorno a un unico tema sviluppando complessivamente una storia che era, nelle intenzioni di ogni passante, strumentale, compositiva e lirica.
Elementi disparati a volte ingenui nella loro esecuzione che rendono il murales un lavoro naïf, ma con una connotazione marcatamente politica e di lotta.
Testimonianza di un sentire comune.



Epilogo.
Oggi Napoli è una città politicamente frastornata.
Oggi a Napoli non esiste più nemmeno il festival dell’Unità.
Il Partito Democratico – nella misura in cui può dirsi erede anche della tradizione politica del PCI – sostituisce il festival con “incontri su temi specifici”, che non si capisce bene cosa siano, ma almeno l’atteggiamento di chi li propone è realistico.
Con le percentuali attuali del Pd, a pensarci bene, non ci sarebbero nemmeno i volontari per mettere in piedi un festival, e nemmeno i “militanti”. Quali ideali, quali valori, quali proposte dovrebbero spingerli a offrire il proprio lavoro? Non esistono più nemmeno le sedi di partito. Se qualcuno fosse sfiorato dall’idea di discutere in pubblico di un argomento, non troverebbe un luogo, in cui farlo.
Tuttavia quarantacinque anni dopo terremoti politici e anche disgregazione, amarezza e delusioni, in forme nuove e con protagonisti diversi, un’idea di cambiamento può ancora trovare spazio a Napoli. Una cultura politica riformista non si è estinta, semplicemente non ha uno spazio per esprimersi, né interpreti. È come un rombo, un sussulto inascoltato nelle viscere della città. Tutto è cambiato da quella festa alla Mostra d’Oltremare ed è un bene, la nostalgia non ha alcun senso. Ma quelle voci e quei volti in bianco e nero parlano ancora, a chi sa ascoltare il linguaggio della politica e… della speranza.

Alfonso Napolitano

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3 commenti

  1. Bello questo racconto, e il murales. Noi della sezione 4 Giornate gestivano il bar dietro il Teatro Mediterraneo. Lunghe file un pomeriggio per prendere i biglietti per lo spettacolo di Eduardo. Nel sentire accenti ‘stranieri’ (di compagni del Nord!), alcuni napoletani (non pochi!) cedettero il posto nella fila … “tanto noi Eduardo lo possiamo vedere anche un’altra volta …”

  2. La nostra sezione non aveva Stand da “gestire”. Servizio d’ordine ogni sera e spesso notturno fino al mattino seguente per riprendere la sera.Tanta stanchezza ma tanta felicità, eravamo giovani ma anche una “comunità” che nasceva dalla comune passione politica ma diveniva presto ” comunità umana”. Di cui sento tanto la mancanza, non tanto per me , che un poco ancora la vivo, ma per il nostro popolo ed i nostri giovani.

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