La telefonata mi sorprese appena varcata la porta di casa. “Hai saputo?”. Non avevo fatto in tempo neppure ad alzare le tapparelle delle finestre per far entrare un filo di luce. Immerso nel buio domestico fu lo scrittore Luigi Compagnone a informarmi. Mi stava chiamando già da un po’; i telefonini erano una diavoleria da fantascienza. No, io non sapevo. Rientravo da una spensierata vacanza in Sardegna, erano i primi giorni di agosto 1984. Da cronista stavo “bucando” la notizia sul destino professionale di una piccola ma coesa comunità di giornalisti comunisti. Una vicenda che mi riguardava. Botteghe Oscure d’intesa con la direzione del quotidiano aveva deciso di chiudere la redazione napoletana de “L’Unità” e di sopprimere le pagine locali. Uno choc.
Sin dal lontano Dopoguerra il Pci di Napoli, insieme alle altre federazioni della Campania, aveva sempre potuto contare sull’attività di una redazione cittadina la cui influenza nel capoluogo e nel resto della regione era molto superiore alle copie vendute, poche migliaia al giorno. Ma nell’estate del 1984 molte cose stanno già cambiando. Il 13 giugno scompare ad appena 62 anni Enrico Berlinguer, il segretario che aveva dato un volto umano al Partito Comunista. L’onda emotiva spinge il Pci al massimo dei consensi nelle elezioni per il parlamento europeo di appena quattro giorni dopo: 33,33 per cento, primo partito italiano. Appena 130.661 voti in più della Dc. Non accadrà mai più. Il partito di Gramsci Togliatti Longo e Berlinguer comincia lì, proprio in quei mesi, a mutare la sua natura senza averne consapevolezza.
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Nell’agosto del 1984 direttore del giornale è un sulfureo Emanuele Macaluso, memorabili i suoi corsivi siglati em.ma. Da quasi un anno il capo della redazione napoletana è Marco Demarco, entro la fine dell’anno si trasferirà a Roma. Lo avevano già preceduto Marcella Ciarnelli e Federico Geremicca. Parte anche Maddalena Tulanti. A Napoli restiamo Franco Di Mare, Vito Faenza, Mario Riccio ed io: persino troppi per quel che è diventato solo un ufficio di corrispondenza. È l’inizio per “i ragazzi di via Cervantes” delle loro avventure professionali nei giornali e nelle tv in giro per l’Italia. Conservo ancora la lettera di ringraziamento firmata da Umberto Ranieri, segretario della federazione di Napoli, vecchio stile comunista: “Cari compagni, in questo momento difficilissimo della storia del giornale vorrei esprimervi con grande fraternità il ringraziamento del Partito di Napoli per tutto quello che avete saputo fare lavorando con disinteresse e intelligenza (…) Il vostro lavoro è stato un esempio di dedizione e di impegno politico e professionale. La chiusura delle pagine oggi è inevitabile per la gravità della situazione generale del giornale (…)”. La lettera di Ranieri continua ipotizzando tuttavia ulteriori iniziative editoriali per dare una nuova voce a Napoli e al Mezzogiorno, perché i comunisti pur incassando una sconfitta non potevano rinunciare a intravedere il sol dell’avvenire. La data è il 7 agosto 1984. L’ufficio di via Cervantes sopravviverà paradossalmente ancora per un po’ di anni, luogo di incontro e di scambio di punti di vista tra giornalisti delle grandi testate nazionali. Ci trovavi Giuseppe D’Avanzo per “Repubblica”, Marzio Breda ed Enzo D’Errico per il “Corriere della Sera”, Fulvio Milone per “la Stampa” e chiunque avesse voglia di raccontare Napoli fuori dagli schemi dell’informazione convenzionale. Un luogo alternativo allo strapotere informativo del “Mattino” dell’epoca, saldamente in mano alla Democrazia Cristiana.
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Dalla provincia al capoluogo è un viaggio esistenziale. Così fu per me, giovane comunista di Castellammare di Stabia. L’antica capitale del Sud ti abbaglia. Ho messo piede nella redazione di via Cervantes 55 sul finire di settembre del 1976, appena ventenne. Da pochi giorni si era conclusa a Napoli la Festa nazionale dell’Unità, Berlinguer aveva riempito di compagne e compagni la Mostra d’Oltremare. A Palazzo San Giacomo Maurizio Valenzi aveva ribaltato l’immagine della città: il primo sindaco comunista dopo il Comandante Lauro e le giunte nel segno dei Gava. Napoli mi appariva pervasa da un’effervescenza sconosciuta. La redazione un laico tempio in cui apprendere i riti esoterici del quotidiano: i menabò, la telescrivente, il fuorisacco, la radiostampa. Credevi di respirare la Storia osservando le collezioni del giornale rilegate e accatastate nel salottino appena all’ingresso; tra tutte spiccavano le raccolte de “La Voce”, il quotidiano dei lavoratori meridionali diretto dal 1945 al 1948 da Mario Alicata. In quel salottino, anni dopo, Ermanno Rea scaverà con passione nelle collezioni dell’Unità per ridar vita nel suo “Mistero napoletano” alla figura di Francesca Spada.
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Tra il 1975 e il 1976 una novità irrompe nel mondo dell’informazione: nasce l’edizione napoletana di “Paese Sera”. Un evento. Ennio Simeone, giornalista di rango, già capo dell’Unità, ha l’incarico da Roma, da via dei Taurini (dove coabitavano i due quotidiani) di organizzare la nuova redazione. Porta con sé Giuseppe Mariconda. Altri lo raggiungeranno. All’Unità si compie un cambio generazionale. Nello “stanzone” – lo chiamavano così – gli ultimi arrivati imparano come si cercano le notizie, a valutarle, a tenere in equilibrio sia i fatti di cronaca sia gli eventi della politica. Un esercizio non facile. Il partito esercita le sue pressioni, desidera sempre più spazio. Ma quella squadra di giornalisti si mostra solida, ascoltata dai tanti inviati dei giornali del Nord. Roberto Ciuni, grande firma del “Corriere”, trascorre mesi e mesi in via Cervantes prima di assumere la direzione del “Mattino”.
In un fermo immagine di 45 anni fa ricordo gli “anziani”, alcuni di loro neppure quarantenni, come un gruppo cordiale, aperto, disponibile a trasmettere conoscenza ai più giovani. Rocco Di Blasi il capocronista succeduto a sorpresa a Simeone, outsider giunto dalla federazione comunista di Salerno, un innovatore, un fratello maggiore per noi “ragazzini”. Nora Puntillo una maestra; ricordo ancora l’ansia che mi metteva quando toccava a lei “passare” un mio pezzo: era capace di fartelo riscrivere una, due, più volte, finché non raggiungevi lo stile giusto. Ce ne fossero ancora oggi nelle redazioni persone come lei, colleghe e colleghi avrebbero di che imparare. Felice Piemontese un raffinato intellettuale, scriveva anche su “Panorama” il che accresceva il suo prestigio. Con Sergio Gallo ho trascorso il primo agosto al lavoro ricevendone una lezione di rigore e serenità, con l’incarico di raccontare l’estate di chi era rimasto nelle fabbriche occupate per difendere il posto di lavoro: maledettamente attuale. Giulio Formato il signore della “nera”, autorevole in Questura e con i carabinieri. Franco De Arcangelis silenzioso estensore di notizie sindacali. Un geniale Mario Riccio, scugnizzo incaricato di svezzare ragazzetti un po’ spaesati, tutti più o meno coetanei: per primi Antonio Polito e Marco Demarco, poi via via io stesso, Vito Faenza, Marcella Ciarnelli, Federico Geremicca, per un periodo più breve Valeria Alinovi, Maddalena Tulanti, Procolo Mirabella, Franco Di Mare. E Marina Maresca, tra le prime a trasferirsi a Roma, segnata dal falso documento sul rapimento Cirillo: uno scandalo. In segretaria la saggezza di Rosaria Paolillo, alla diffusione l’esperienza di Franco Feliciotti e Claudio Massari che mi insegnò che cosa fosse la cazzimma. Sai che cos’è, mi domandò un giorno a bruciapelo. Dal mio sguardo intuì che non ne avessi idea. Vuoi saperlo?, incalzò. Ingenuamente risposi di sì. E io non te lo dico; ecco, anche questa è cazzimma, impara. Imparammo un po’ alla volta. Ė stata una grande scuola umana e professionale cui resto debitore.

Luigi Vicinanza giornalista

Il particolare dell’immagine è tratto da foto di Mario Riccio. Festa de l’Unità Napoli 1975.

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