Da Avellino all’Angiporto Galleria passando prima per le Frattocchie e poi per l’Abruzzo

PRIMA PARTE

di Ennio Simeone

Era una mattina di novembre del 1954 quando mi affacciai al quinto piano di quello che veniva chiamato “Il palazzo dei giornali“, all’Angiporto Galleria, dove aveva sede anche la redazione napoletana dell’Unità (meglio scrivere de “l’Unità“), un piano sopra a quella, molto più grande, del “Mattino“, che aveva al pian terreno anche la tipografia.

Già da qualche mese, subito dopo aver conseguito la licenza liceale, facevo il vice-corrispondente da Avellino, la mia città, per dare una mano al titolare, il compagno Bruno Giordano, un anziano avvocato, membro della Commissione provinciale di Controllo del Pci (di cui era presidente mio nonno, capufficio delle Poste, inflessibile figura di antifascista) e al corrispondente sportivo, Camillo Marino, insegnante di ginnastica, ma soprattutto effervescente e colto cinefilo, fondatore del “Circolo del Cinema”.

Ero da poco anche l’unico redattore del “Progresso Irpino“, un settimanale della Federazione del Pci, che aveva come direttore responsabile l’avvocato Nicola Vella (indipendente di sinistra)  e un “comitato di redazione” composto da un gruppo di professori di scuole superiori (comunisti, socialisti e indipendenti di sinistra). Il “Progresso” entrò in concorrenza con lo storico “Corriere dell’Irpinia“, un settimanale piuttosto conservatore, ma soprattutto con il neonato settimanale “Cronache Irpine“, che Biagio Agnes, Nicola Mancino e, occasionalmente, Ciriaco De Mita, venivano ad impaginare nella stessa tipografia, sul bancone accanto a quello dove si operavo io.

Il mio compito era quello di andare una volta alla settimana in tipografia per l’impaginazione e per la correzione delle bozze, oltre a scrivere dei pezzi di vario genere. Tutti lavoravamo gratis, però a me venivano pagati da “l’Unità” i pezzi settimanali di sport a 500 lire l’uno (più o meno l’equivalente di 15 euro di oggi), che mi arrivavano mensilmente da Roma.

Ma mi dedicavo anche alla organizzazione della diffusione domenicale del quotidiano del Pci in tutta la provincia, andando io stesso in città o in qualche comune a vendere il giornale (una volta in un paese dell’Alta Irpinia rischiai di prendermi una denuncia dal maresciallo dei carabinieri al quale proposi l’acquisto de “l’Unità”: considerò la cosa una “provocazione”, poi si calmò quando gli spiegai che ero uno studente e che non ero pagato per questo, ma ero uno dei tanti attivisti dell’Associazione “Amici dell’Unità“).

Inoltre, quando ad Avellino ci fu un delitto che ebbe un’eco nazionale, fui contattato da “Paese sera” che mi commissionò sull’argomento una serie di pezzi di cronaca  e il rapporto con quel giornale si trasformò in una collaborazione fissa, con gli articoli firmati con uno pseudonimo (un anagramma meno complicato di quello di Biscardi: Nino Emonesi).

Tuttavia allora tra la redazione napoletana de “l’Unità” e i corrispondenti dalle province campane non c’era alcun rapporto, anche perché nell’edizione napoletana venivano pubblicate solo le pagine con la cronaca di Napoli e provincia napoletana, mentre in quella della Campania venivano pubblicate solo le pagine delle altre 4 province: Avellino, Benevento, Caserta e Salerno, i cui corrispondenti facevano capo alla Redazione centrale di Roma, Sezione Province, dove c’era un redattore che si occupava di ciascuna regione o gruppo di regioni dalla Toscana in giù, isole comprese.

 Già, perché l’Unità, allora, aveva 4 redazioni centrali con 4 direttori responsabili diversi e con 4 strutture redazionali e tipografie diverse: oltre a quella di Roma (la principale), c’erano le edizioni di Milano, di Torino e di Genova, autonome l’una dall’altra, pur avendo in comune alcune pagine, come quelle della Cultura, e gli articoli più importanti, soprattutto quelli politici, ma non solo. E la stampa avveniva in altrettante tipografie dislocate nelle quattro città anche per far fronte all’esigenza di tiratura, che la domenica superava il milione di copie, e all’esigenza di produrre pagine destinate a tutte le aree del paese.

Insomma l’Unità era una gigantesca macchina editoriale con una ramificazione straordinaria su tutto il territorio nazionale considerando i mezzi tecnici di produzione e di comunicazione di cui disponeva l’industria editoriale a quei tempi.

Ecco perché (e torniamo alla nostra “nicchia”) l’edizione della Campania non conteneva le pagine di Napoli e l’edizione di Napoli non conteneva le pagine delle altre province campane. Sembrerà assurdo, ma era necessariamente così.

 Perciò, nell’autunno del 1954, appena mi iscrissi all’Università Federico II (Facoltà di Giurisprudenza, perché mio padre desiderava che facessi il magistrato, ma io scelsi, senza confessarglielo fino al giorno della seduta di laurea, il corso di Laurea in Scienze Politiche) e iniziai a fare il pendolare Avellino-Napoli decisi di andare a conoscere i compagni della redazione napoletana de “l’Unità” e quelli della redazione napoletana di “Paese Sera”, si trovava proprio in Galleria.

E lì scoprii che quella di Napoli, oltre che una redazione di giornale, era un punto di incontro di alcune delle migliori intelligenze napoletane, un vero e proprio salotto culturale della sinistra, formatosi già ai tempi de “La Voce” (il quotidiano napoletano della sinistra fondato nel 1948 da Mario Alicata) e consolidatosi grazie al fascino che trasmettevano il capo della redazione, Renzo Lapiccirella (succeduto da poco a Nino Sansone) e la fantasia contagiosa di Francesca Spada, brillante cronista giudiziaria e redattrice culturale, diventata sua moglie, vera e propria calamita per l’intellettualità progressista partenopea rappresentata da scrittori come Domenico Rea, Luigi Compagnone, Luigi Incoronato, il critico teatrale Paolo Ricci e il grande matematico Renato Caccioppoli.

Renato Caccioppoli

Poiché ad Avellino mi occupavo, come ho detto, anche di sport chiesi di conoscere anche il giornalista sportivo Baldo Molisani, la firma che mi era più familiare, perché gli articoli sul Napoli venivano pubblicati sulle pagine sportive nazionali, che arrivavano anche nel resto della Campania. Ma con un sorriso ammiccante Renzo Lapiccirella mi confessò che un giornalista con quel nome non… esisteva, o meglio: quella firma era lo pseudonimo di un giovane molisano (venuto a frequentare l’Università di Napoli), il cui nome era Aldo con un cognome che iniziava per B: Biscardi. Insomma era Aldo Biscardi, il già noto cronista sportivo della redazione napoletana di “Paese Sera” che collaborava sotto mentite spoglie anche con l’Unità. Andai subito a conoscerlo andando nella redazione di “Paese sera”, dall’altra parte della Galleria, ma lui non si mostrò entusiasta del fatto che avessi scoperto il suo doppio ruolo, che voleva tenere semi-segreto. Con Aldo ci saremmo ritrovati e abbracciati molti anni dopo (nel 1976) a Roma, quando venni chiamato a coprire il ruolo di redattore capo a Paese sera: lui era diventato il n.1 dello sport nazionale di quella gloriosa testata ed era già un volto ormai popolare delle tv nazionali.

Ma riportiamo la pellicola all’indietro, all’anno 1957. Quando il segretario della Federazione comunista di Avellino, il compagno Giuseppe Rizzo, mi propose di fare un’esperienza nuovaandare a Roma a frequentare per un anno la Scuola di Partito delle Frattocchie (una grande villa del Pci nella zona dei Castelli Romani) – rimasi perplesso: capii che la sua intenzione era quella di “formare un nuovo quadro dirigente” del partito, come si usava dire allora. Ma non m’interessava. Volevo fare il giornalista. E poi dovevo mantenere la promessa fatta a mio padre e a mia madre: che non mi sarei fatto distrarre dalla passione per il giornalismo e che a 22 anni mi sarei laureato in Giurisprudenza (sempre senza rivelare che il corso di laurea era quello in Scienze Politiche).

Mi fu obiettato da Rizzo che alle Frattocchie c’era una biblioteca immensa, dove attingere materiale per la tesi di laurea (su una materia che richiedeva fonti non proprio a portata di mano: “I rapporti politici ed economici tra ltalia e lndonesia“). Accettai. Il direttore era un napoletano, Pietro Valenza, che avrei ritrovato a Napoli, anni più tardi. Mi concesse sia di accedere alla biblioteca per consultare materiale utile alla stesura della tesi di laurea, sia di frequentare la domenica sera la redazione romana dell’Unità, dove fui accolto bene e autorizzato a collaborare con la redazione sportiva  nel disegnare, correggere e titolare gli articoli dei corrispondenti sportivi in un paio di pagine dei campionati di serie C per poi scendere in tipografia ad impaginarle fino a mandarle in stampa e poi correre in piazza San Giovanni a prendere l’ultimo tram della notte diretto ai Castelli, destinazione Frattocchie.

Fu dopo questa esperienza che il capo servizio del settore Province, Loris Barbieri, mi propose di andare a fare il corrispondente regionale in Abruzzo, dove aveva tentato (nella linea allora molto caldeggiata nel Pci e che anche lui, giovane operaio emiliano, aveva percorso) di lanciare in quel ruolo un giovane e vivace operaio toscano, molto bravo, ma rivelatosi inadatto a quel ruolo. Accettai. In Abruzzo lavorai per un anno, fu una bella esperienza, che conclusi con un disastroso viaggio nel corridoio di un treno “accelerato” (Pescara-Bari e poi cambio sul Lecce-Napoli) iniziato il pomeriggio e conclusosi la mattina, giusto in tempo per fare, in condizioni fisiche penose, l’ultimo esame universitario prima della laurea, quello di Diritto amministrativo: voto 24.

Fu a questo punto che il solito Loris Barbieri – alla richiesta di Renzo Lapiccirella di essere autorizzato ad assumere nella redazione napoletana un altro giornalista per rimpiazzare il trasferimento del bravissimo Franco Prattico alla redazione romana – gli propose di assumere me. Approdai così all’ esperienza di lavoro in quella straordinaria redazione, ma con la qualifica di giornalista pubblicista che avevo acquisito grazie all’iscrizione all’Albo ottenuta per l’attività svolta ad Avellino e a Pescara.  Fui accolto con affetto e impiegato in tutti i ruoli, dalla cronaca giudiziaria alla cronaca nera (sala stampa della Questura), e persino per un servizio da inviato: in Puglia, a Trani, per raccontare il processo sul crollo di un palazzo a Barletta con 78 morti. Arrotondavo anche il compenso con qualche occasionale collaborazione alle riviste in rotocalco “Vie Nuove”  e “Noi Donne“.

Dopo il lavoro la sera, con Franco De Arcangelis (che si occupava della pubblicità, ma era bravo anche in materia sindacale, inspiegabilmente poco utilizzato) si andava in una pizzeria o in una latteria (secondo le disponibilità economiche), o al Vomero alla friggitoria davanti alla stazione della funicolare. Poi me ne tornavo nella modesta cameretta in affitto al Pallonetto Santa Lucia.

Con Sergio Gallo comunicavo poco: da studente, si trasformava nel pomeriggio-sera in fattorino per fare la spola tra la redazione e il palazzo della Posta, dove portava i nostri articoli trasmessi per telescrivente a Roma e da dove riportava la copia stampata del testo spedito. Mario Riccio e Franco Feliciotti provvedevano alle foto; prima di loro il fotografo era “Buttiglione” (lo chiamavamo così perché aveva una macchina con un radiatore che si surriscaldava facilmente e lui doveva fermarsi per rabboccare l’acqua e ripartire).

Franco Feliciotti

Di quell’epoca ho però un ricordo triste per come si chiuse: Renzo Lapiccirella fu chiamato alla redazione di Roma (e il suo posto fu preso da Aldo De Jaco, prolifico scrittore, il più famoso dei suoi libri “Le quattro giornate di Napoli”), Renato Caccioppoli si suicidò, Francesca Spada ne fu sconvolta e lo imitò tragicamente, Ermanno Rea allentò la sua passione per le foto e si dedicò alla scrittura.

Francesca Spada

Con De Jaco rimasero Giulio Formato e Eleonora Puntillo; si aggiunse poi Aldo Daniele.

Anch’io fui chiamato alla redazione centrale di Roma: prima per il ruolo di vice-capo della sezione Province, poi per quello di caposervizio del settore grafico che affiancava il caporedattore nell’Ufficio del caporedattore ideato dal nuovo direttore, l’autorevole e autoritario membro della segreteria nazionale del Pci, Mario Alicata (che era stato direttore della “Voce” di Napoli), infine per il ruolo di capo del servizio “Attualità” (sia interna che estera).

Quando, dopo alcuni anni, nel 1965, nel corridoio della moderna sede centrale di Via dei Taurini sentii la sua voce perentoria: «Simeoni!» (non riusciva a restituirmi… il mio singolare) . Era appena tornato da una missione a Cuba e il giorno prima mi aveva offerto un sigaro cubano, che io fantozzianamente avevo rifiutato dicendo “non fumo”, cosa che aveva provocato in lui una smorfia che non dimenticherò più. Perciò quando mi invitò a seguirlo nella sua stanza temetti il peggio, soprattutto quando mi disse: «Devi andare immediatamente a Napoli!». Ripensai alla scena del sigaro. E invece, senza attendere la mia reazione, mi sorprese: «Devi andare a dirigere quella redazione!». Timidamente obiettai: «Ma lì c’è Andrea Geremicca. Perché?…». Risposta: «Il segretario della Federazione del Pci, Giorgio Napolitano, mentre io ero a Cuba, se l’è preso al Partito, per fare il segretario cittadino. E ha nominato un certo compagno Daniele. Ma il capo della redazione napoletana lo decido io!».

Era il 10 luglio del 1965, gli feci presente che due giorni prima era nato il mio secondo figlio, Luca, e la mia prima figlia, Monica, aveva appena compiuto da un anno; avevo preso in affitto una casa più grande perché la famiglia era cresciuta e avevo in programma il trasloco per il 1° agosto.

Niente da fare! «Lunedì prendi servizio a Napoli – rispose – Disdìci l’affitto! Ti rimborsiamo la penale per la disdetta del contratto».

Cinque giorni dopo caricai la famiglia sulla Seicento: sul sedile accanto a quello del guidatore mia moglie Nina con la piccola Monica in braccio (allora si poteva), su quello posteriore mia suocera con sulle gambe una cesta con dentro il piccolo Luca. Destinazione Serino, la casa dei miei suoceri, dove piazzai la famiglia in attesa di trovare casa a Napoli.

Il lunedì presi servizio in redazione a Napoli (che intanto dall’Angiporto Galleria si era trasferita in via Roma, Palazzo Motta). Poi andai nella sede della Federazione del Pci a salutare il segretario della Federazione, Giorgio Napolitano. Che mi accolse con grande cordialità. Come se nulla fosse successo. E così fu anche con Gerardo Chiaromonte e Massimo Caprara.  Mi aspettavano 11 anni di un lavoro entusiasmante. Ma ne parleremo in un’altra puntata.

Articoli precedenti:

VITO FAENZA https://www.centoannipci.it/2021/03/13/i-ragazzi-di-via-cervantes-4-la-lotta-alla-camorra-fatta-anche-con-un-giornale-lunita-di-vito-faenza/

ROCCO DI BLASI https://www.centoannipci.it/2021/03/06/i-ragazzi-di-via-cervantes-3-la-seconda-meta-degli-anni-70-di-rocco-di-blasi/

BENITO VISCA https://www.centoannipci.it/2021/03/03/i-ragazzi-di-via-cervantes-2-benito-visca-al-giornale-a-scuola-di-operai-e-scrittori/

LUIGI VICINANZA https://www.centoannipci.it/2021/02/27/i-ragazzi-di-via-cervantes-lunita-di-luigi-vicinanza/

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *