di Ubaldo Ubaldi

SEGRETARIO GIUSEPPE AMARANTE (GIUGNO ’70- FEBBRAIO ’74)
La macchina burocratica è inarrestabile, il 29 giugno Bertini si dimette e Amarante, da poco eletto nel Consiglio Regionale, viene nominato segretario della Federazione del PCI a Salerno.
Fu quindi proprio in questi frangenti drammatici che Giuseppe Amarante ritornò all’attività del partito come segretario, dopo un lungo periodo in cui aveva guidato la CGIL – incarico che aveva lasciato con rammarico appunto per essere candidato alle regionali- ma come abbiamo visto fu una decisione fortemente voluta dal segretario regionale Alinovi. Amarante fu scelto appositamente, perché ritenuto autorevolmente capace di gestire un duro scontro interno, che sarà poi nei giorni seguenti reso ancor più esasperato dalle azioni di rivalsa dello stesso Rainone e seguaci dopo la radiazione.


Le polemiche quindi non terminarono ma continuarono nelle settimane successive fino alla famosa “scissione”. L’epilogo fu l’8 agosto, quando vennero convocate, all’insaputa della Federazione, “assemblee generali” nelle sezioni “Gramsci-Di Vittorio” e “Pastena-Mariconda”. Amarante decise allora di affrontare personalmente la questione, recandosi assieme ad altri dirigenti federali nelle sezioni, ma venne contestato e costretto ad allontanarsi. Nelle assemblee fu portato all’approvazione un documento, i cui punti essenziali riguardavano: l’accusa di involuzione politica del PCI che contribuiva in tal modo alla stabilizzazione della politica di centro-sinistra.
Per ulteriori e pubblici chiarimenti fu decisa anche la stampa di un lungo volantino, dal titolo «Una via senza ritorno», che venne diffuso in città e in provincia, nel quale si chiariva come tra i dissidenti fosse maturata la “decisione” di costituirsi in Sezione autonoma aderendo alle posizioni de “il manifesto”, riproponendo le aspre critiche di involuzione socialdemocratica del Partito Comunista, accusato di voler svuotare le grandi lotte dell’autunno caldo e l’entusiasmante spinta dei giovani per un radicale rinnovamento della società.
Gli “scissionisti” tentarono quindi di costituirsi in “Movimento Comunista Autonomo” convocando assemblee come quelle degli edili del 24 agosto e degli operai, netturbini e salariati comunali del 25 agosto.
Nel frattempo anche a Battipaglia lo scontro interno al PCI si esaspera, all’epoca le sezioni della cittadina erano ben quattro e almeno tre di queste erano guidate da uomini della fazione dei fratelli Mirra. Quando questi si costituirono in un “Movimento Comunista Autonomo”, riuscirono quindi a portare con loro tre dei segretari delle quattro sezioni e una ventina di iscritti e tre consiglieri comunali in carica. Di fatto però i loro tentativi di aderire a organizzazioni di sinistra in primis il PSIUP, furono respinti. Il M.A.C. non avrà poi in concreto – dopo un tentativo fallito alle comunali- alcun seguito, mentre il neo segretario cittadino Colangelo riuscirà poi a ricostituire il partito, tanto che alle successive amministrative questo crescerà in voti e consiglieri eletti, da tre passeranno a cinque.
I giovani che a Salerno facevano riferimento alla rivista de “il Manifesto”, nell’estate del ’70 avevano già costituito un “Centro di Iniziativa Comunista del Manifesto”, a composizione prevalentemente “studentesca” e in ogni caso “giovanile”. Quando nell’estate di quell’anno scoppia il caso, velocemente e ampiamente riportato nelle cronache giornalistiche anche nazionali, dell’adesione al Manifesto di un consistente numero di iscritti di due sezioni storiche del PCI salernitano la Gramsci-Di Vittorio al centro e quella Lenin di Pastena, il Centro di Iniziativa de “il manifesto”, con sede in via Arce, entra in fibrillazione, i suoi giovani aderenti rischiano – in caso di effettiva confluenza degli “scissionisti” nel Manifesto- di essere travolti nella loro ricerca di una politica nuova e alternativa alle vecchie logiche -spesso meramente di potere- interne al PCI.
La presa di distanza dei giovani di Via Arce comportò la venuta a Salerno dei dirigenti nazionali del Manifesto per dirimere la questione ed effettivamente vennero due figure di peso del gruppo nazionale, molto noti e seguiti anche dalla “base” del PCI, Valentino Parlato e Luciana Castellina.


LE DUE ASSEMBLEE DE IL MANIFESTO, SETTEMBRE
Si ebbe così la “storica” giornata delle due assemblee del primo settembre, Parlato incontra il gruppo degli scissionisti nella sezione Di Vittorio, mentre la Castellina va ad incontrare i giovani del Centro di Iniziativa Comunista in via Arce. Alla fine il Manifesto di via Arce e i suoi giovani riuscirono ad avere il riconoscimento dell’essere loro gli effettivi rappresentanti de “il manifesto”, mentre per gli altri vennero lasciate cadere le loro istanze. Probabilmente nel nutrito gruppo degli scissionisti non tutti erano in malafede e un troppo frettoloso accomunamento escluse la possibilità di un radicamento maggiore nel proletariato salernitano del Manifesto, cosa che il gruppo sconterà successivamente anche in termini elettorali.
E gli “scissionisti”? Rimasti isolati e in seguito alla veemente risposta dell’apparato con un volantino durissimo e “integralista” in cui li si accusava di tradimento, di attaccare l’Unione Sovietica, la CGIL e l’autonomia sindacale “.. essi contribuiscono così all’azione dei padroni, dei grandi industriali ed agrari e dei partiti reazionari che vedono nel Partito Comunista il loro conseguente nemico.. essi saranno amaramente delusi. I lavoratori che hanno costruito con tanti sacrifici anche a Salerno e nella provincia il Partito Comunista .. daranno ai traditori la risposta che meritano..”. Viene altresì emesso un “Comunicato Stampa” a firma dell’Ufficio Stampa del PCI, nel quale si riportano le accuse verso gli scissionisti e un elenco di sezioni e assemblee nelle quali “.. è stata ribadita la convinta adesione alla linea del Partito e si è espressa la ferma determinazione di portare avanti con impegno crescente la politica comunista..”. Amarante con malcelata soddisfazione, qualche anno dopo così chiudeva la vicenda: “più tardi però, diversi promotori della scissione di Salerno, usciti dal PCI su posizioni contro il centrosinistra, aderiscono al PSI o al PSDI. Moltissimi militanti che li hanno seguiti nella scissione rientrano man mano nel PCI.”.
La vicenda però pur con tutti i tentativi di ridimensionare o coprire gli eventi, aveva mostrato molteplici elementi di una profonda crisi del PCI salernitano e soprattutto un distacco tra apparato – sempre più burocratizzato- e movimenti, fossero essi proletari, nel senso più ampio e tradizionale del termine, ma anche dei “nuovi” movimenti che si generavano dal ’68, in primis quello degli studenti.

Giuseppe Amarante- Archivio Ubaldo Baldi


LA RICOSTRUZIONE DI AMARANTE E GLI ANNI ‘70

Il segretario Amarante è ben conscio dei problemi politici e organizzativi che gli stanno di fronte e lui stesso li analizza: “Il problema vero che si individua è quello dello stato del partito. Le sezioni all’atto della scissione non hanno reagito, come in altre occasioni, con scatti e clamori, ma piuttosto con turbata passività. Sei-sette anni di lotte intestine, condotte con mosse e linguaggi non sempre comprensibili, asprezze e tensioni anche in rapporti umani, hanno prodotto una situazione complessiva di logoramento. Il pericolo di fondo non è quello del passaggio in massa al «Manifesto», ma di un ridimensionamento del partito al livello della quota bassa di iscritti cui è già giunto ed alla quale rischia di rimanervi a lungo, con fasce operaie e popolari deluse, divise, le quali col tempo potrebbero rimanere assenti sia rispetto al P.C.I. sia rispetto ad altre formazioni politiche. Il pericolo, quindi, di ritrovarsi un partito minoritario nel peso numerico e in quello politico. Molti appaiono i collegamenti di massa perduti, basso è il livello politico delle sezioni, ridotta perfino la base territoriale. Si prende amaramente atto che in 65 Comuni sui 157 il partito non è più presente. Chiuse molte delle sezioni rionali o frazionali dei grandi centri. E’ sul partito che bisogna intervenire ridando ai compagni e alle sezioni la consapevolezza della situazione politica e dell’essenzialità del ruolo del partito, richiamando in essi, con nuovi metodi, con nuovi rapporti tra dirigenti e base, i valori propri che hanno fatto scegliere a ciascuno la milizia comunista. Si tratta, dunque, di non esaurirsi nelle dispute con gli scissionisti, né di procedere ad una «rifondazione» del partito, come pure qualcuno afferma, bensì ad una meno roboante ma più reale e difficile opera di «ricostruzione» del partito. Perciò già negli ultimi mesi del 1970 e nei primi mesi del 1971 si opera per immergere il partito nei problemi reali della situazione, attrezzandolo meglio rispetto ai problemi stessi..”. A gennaio del ’72 si svolge l’11° Congresso provinciale del PCI, i temi rilevanti discussi nelle sezioni sono quelli dell’occupazione, delle riforme, del Mezzogiorno, e che grazie alle lotte operaie e ai movimenti popolari si è riusciti a contrastare gli interessi monopolistici che tendevano alla chiusura delle ultime aree di occupazione nel settore della tabacchicoltura, e lottare contro il dilagante sottosalario dei conservieri ed agrari. Di particolare durezza la lotta bracciantile della Piana del Sele e l’appoggio ai contadini dell’Agro nocerino per una adeguata remunerazione del prodotto da parte degli industriali conservieri. E’ stato contrastato grazie alla combattività e alla resistenza dei braccianti organizzati nella categoria il ricorrente tentativo messo in atto dagli agrari di un “blocco rurale” per far fronte alle giuste richieste di 50.000 lavoratori. Il PCI attraverso convegni e iniziative sono stati a fianco dei braccianti nelle loro lotte. Vi è in atto una manovra mediatica per far ricadere sulle spalle dei lavoratori in lotta per i rinnovi contrattuali o per le riforme, la colpa della crisi che è strutturale. Amarante però, nella sua relazione, non si esime dal rivolgere una critica aperta all’ “azione provocatoria dei gruppetti estremistici di contestazione della linea sindacale, di esasperazione delle forme di lotta, che portano la classe operaia all’isolamento”.
Nel corso del dibattito però, mostra una timida apertura a sinistra, rilevando come sia fondamentale recuperare quei gruppi che si sono formati attorno a riviste, liste, per impegnare queste forze nella elaborazione di piattaforme comuni, iniziative e lotte unificanti.
Apre anche al processo di unità sindacale e alla imminente confluenza del PSIUP anche negli organismi dirigenti del Partito.
Anche a Salerno, a metà anni ’60, il PCI aveva vissuto una notevole difficoltà nel mantenere saldo il “controllo” dei movimenti e delle lotte che si svilupparono in quegli anni nelle fabbriche o in altri luoghi di lavoro. Mentre in settori più tradizionali le struttura sindacali e gli organismi territoriali delle sezioni “tennero”, come avvenne a Salerno, sfruttando appunto gli storici legami tra edili e strati di sottoproletariato urbano rinsaldatisi nelle più o meno recenti lotte per la casa, dove invece l’incrinatura fu più evidente fu nelle lotte operaie di fabbrica.
Le lotte nelle fabbriche della provincia si sostanziarono in una serie di rivendicazioni aziendali che erano inerenti alla conquista di nuove qualifiche, riduzione effettiva dell’orario di lavoro, eludendo il ricorso alla monetizzazione dello straordinario, e una serie di conquiste sugli organici, scatti di anzianità, premi di produzione. Nel ’65 la parola d’ordine del 1° maggio è “riscossa operaia” verso “.. i gruppi monopolistici italiani.. [che] hanno sferrato nuovi attacchi contro i lavoratori sui quali intendono far ricadere le spese della concentrazione industriale e finanziaria in atto”.
Il ’68 sindacale CGIL è caratterizzato da due obiettivi, una grande campagna per il rafforzamento numerico sulla base della difesa delle discriminazioni nell’avviamento al lavoro, contro i licenziamenti, il supersfruttamento, i bassi salari, l’attacco ai membri delle C.I. e a livello generale la lotta alla politica dei redditi, l’altro obiettivo locale è una grande raccolta di fondi attraverso una sottoscrizione per l’acquisto di una nuova sede che sarà quella di via Robertelli.
Nel salernitano sempre intorno alla metà degli anni sessanta, conseguentemente al tentativo di “riequilibrio” degli investimenti di capitale pubblico, sostenuta da forze come il PRI di La Malfa, che si sostanziò anche nella politica governativa dei “poli di sviluppo” regionali (dell’osso e della polpa), si ebbero alcuni nuovi insediamenti di industrie.
Quelle che effettivamente si insediarono nel polo di Pontecagnano intorno alla metà degli anni sessanta, furono per lo più slegate dal territorio, come la Ideal-Standard, Pennitalia, Landis&Gir, Snia, Sassonia, Brollo, e più tardi, dopo il ‘69 a Battipaglia, l’Alcatel, la Smae Pirelli e altre, ma che comunque effettivamente produssero una certa occupazione, alimentando la crescita di una nuova leva di classe operaia, soggetti che saranno i protagonisti delle lotte a cavallo del ’69-’70.
Anche a Salerno questi giovani e agguerriti operai, individuarono nuove forme di lotta anche importanti, che privilegiavano lo strumento organizzativo dei CdF dei delegati, soggetti scelti dal basso e che proprio partendo da quegli organismi nuovi e democratici furono in grado di esprimere tentativi di visione strategica e organizzativa sul territorio.
Saranno loro i protagonisti di una formidabile stagione di lotte sia all’interno dei luoghi di lavoro, per i rinnovi contrattuali ma anche per l’obiettivo di un nuovo modello di sviluppo e per la conquista di nuovi assetti socio-economici del territorio.
Lotte formidabili anche nel salernitano nel periodo 1971-1973 che videro occupazioni di fabbriche, cortei e scioperi.

1974 Sciopero generale e Manifestazione nazionale a Napoli – Archivio Mario Riccio-Infinitimondi


IL 1974
Nei primi giorni dell’anno, era ancora in essere a livello nazionale, la lotta contrattuale dei metalmeccanici, che erano costretti ad una intensificazione delle forme di lotta, per sostenere l’attacco del fronte padronale e l’insidia della mediazione governativa, dovendo confermare l’irrinunciabilità della classificazione unica, della contrattazione articolata, delle 150 ore per la formazione culturale. Era chiaro l’intento di isolare la categoria dei metalmeccanici, per colpire la punta più avanzata del movimento e quindi il movimento stesso. A livello locale anche i metalmeccanici salernitani, sui quali pesava maggiormente il ricatto occupazionale, erano in lotta. In quei giorni infatti gli operai della fabbrica metallurgica “Fonderia Giacomo Pisano & figli”, avevano occupato la fabbrica – già dal 27 dicembre 1973– contro i minacciati licenziamenti dei 60 operai e la chiusura dell’azienda. In un’assemblea dei CdF delle aziende metalmeccaniche salernitane, i delegati riunitisi il 24 gennaio proprio nella Pisano occupata, assunsero l’impegno alla mobilitazione a sostegno della lotta degli operai della fonderia di Fratte e alla preparazione dello sciopero generale regionale che si sarebbe svolto a febbraio.
La manifestazione del 27 febbraio fu quindi uno sciopero generale di tutte le categorie che si svolse a Salerno con corteo e comizio, a piazza Amendola, di Claudio Milite e Manlio Spandonaro della Federazione nazionale unitaria CGIL CISL UIL.
Quello sciopero ridiede vigore all’iniziativa operaia, di lì a due settimane, il 13 marzo, i CdF della zona industriale di Salerno, si riunirono presso la Brollo, proprio su proposta dei delegati di quell’azienda, per discutere sul tema del possibile miglioramento del trasporto pubblico. Erano presenti i delegati di: Landis&Gir, Paravia, Atacs, Ceramica UDA, Brollo, Sassonia, Carpenterie Meridionali, Pennitalia, Ideal Standard Ceramica e Fonderia. Al di là delle proposte concordate, come l’istituzione del trasporto pubblico come autentico servizio sociale, quello che appariva politicamente pregnante era la volontà di costituire un coordinamento dei CdF della zona intercategoriale e unitario.
Erano in discussione, oltre ai temi del trasporto, altri obiettivi “territoriali” quali le cooperative di consumo, il completamento dell’Ospedale, l’edilizia popolare, l’utilizzo delle 150 ore. Era una piattaforma concreta che poteva essere foriera di sviluppo ma non ebbe particolare consenso da parte delle Federazioni sindacali.
Tra il 5 e il 9 maggio, ancora un altro accadimento polarizzerà l’interesse del movimento operaio e delle forze della sinistra: i fatti di Eboli.
Eboli era ancora una città a forte tradizione comunista o comunque di sinistra, soprattutto negli anni cinquanta ne era divenuta una vera e propria “roccaforte”, in un territorio meridionale che invece era ormai divenuto prevalentemente democristiano. Ma qualcosa andava cambiando, nelle elezioni del ’72 c’era stata una “svolta”, la DC era riuscita ad ottenere il sorpasso nei confronti del PCI (36,8% vs 30,1%), quello era stato un importante segnale rivelatore di una lacerazione che andava allargandosi, tra bisogni popolari e loro rappresentanze politiche storiche.
La DC locale, dopo i fatti di Battipaglia aveva sollecitato ai vertici nazionali impegni concreti, per potenziare investimenti che fossero capaci di assorbire la crescente richiesta di occupazione nella Piana.
Era stata prospettata la possibilità di un insediamento in loco di una fabbrica a capitale misto, IRI e Fiat, che doveva produrre velivoli, l’Aeritalia, ma questa ipotesi tra i diversi giochi nelle varie correnti e alleanze della DC, a settembre del ’72 svanì.
Contemporaneamente riprese il gioco di pressioni e promesse, tanto che a maggio del ’73 fu fatta balenare come presa, la decisione ministeriale di insediare nella zona di Eboli uno stabilimento FIAT per la produzione di automobili.
Nel frattempo il PCI era rimasto obiettivamente un po’ in disparte, schiacciato dai continui annunci, capovolgimenti di impegni e relativi battage pubblicitari, dovuti alle lotte intestine tra i vari leader e capetti democristiani alla ricerca di più ampi consensi popolari, la federazione riesce appena ad abbozzare una timida risposta.
Visti i pericoli che l’esasperazione popolare poteva innescare, nelle ore successive il PCI e soprattutto la CGIL decidono di mobilitare le forze, lo slogan è “Eboli non è sola” e “Lotta meridionale sotto la guida sindacale” , la preoccupazione delle forze e dei partiti di sinistra è prendere la testa della protesta, impedire divisioni e contrapposizioni “tra poveri”, imporre al governo il rispetto degli impegni presi. Già il 6 mattina sono i sindacati a guidare il corteo dello sciopero e della protesta, contro chi cerca di pescare nel torbido e strumentalizzare la rabbia e la protesta popolare.
Bisogna sottolineare come pur di fronte ad un’altra spregiudicata manovra clientelare, illudendo il bisogno di occupazione di vaste popolazioni di una provincia meridionale da parte dei notabilati democristiani e di fronte a un moto ribellistico che poteva assumere carattere tale da prestare il fianco a speculazioni di destra, l’intervento del Pci, del suo apparato e soprattutto dei sindacati e dei Consigli di fabbrica di molte grandi aziende non solo salernitane, avevano dimostrato il ruolo “responsabile” di queste forze politiche. Anche se questo “.. consentì al Pci di smettere definitivamente le vesti di forza antagonista ed indossare quelle di prezioso alleato della DC..” nel solco di quel che auspicava la linea berlingueriana.
In quel clima abbastanza travagliato, molta fu la preoccupazione che i fatti di Eboli, potessero creare turbamento all’imminente scadenza elettorale del 12 maggio, per il Referendum indetto per l’abrogazione della Legge che aveva istituito il divorzio in Italia.
Le forze di sinistra, soprattutto il PCI dopo aver superato delle prudenze e tentennamenti iniziali, quando la DC ricorse all’istituto del referendum abrogativo della Legge Fortuna, si schierò apertamente e gettando sul tavolo tutte le sue forze, ben consci dell’importanza di quel voto. A Salerno il PCI propose varie iniziative tra queste quella del 6 aprile all’Augusteo con Giorgio Amendola che registrò una ampissima partecipazione entusiasta.
La mobilitazione coinvolge anche le avanguardie operaie che il 4 maggio alle 9,30 del mattino si riunirono al cinema teatro Augusteo, a nome di tutte le forze laiche e cattoliche per il NO. Anche la FLM provinciale interviene con un proprio volantino del 20 aprile che, rispetto allo svolgimento del Referendum, lo dichiara voluto da “.. bene individuate forze politiche reazionarie col chiaro fine di strumentalizzare un diritto civile e democratico e per spostare a destra l’asse politico del paese.. il sindacato in quanto tale si batte per la difesa dei diritti civili e democratici e per la difesa dei principi di libertà.. la classe operaia dovrà respingere il pericolo di lacerazioni.. e battersi per il rafforzamento del patrimonio unitario costruito con le lotte dei lavoratori..”. Fu un risultato storico, a livello nazionale certamente, in Campania il NO ottenne il 47,8% e il SI il 52,2, ma a Salerno città il risultato fu ancor più entusiasmante. Infatti mentre nelle elezioni politiche del ’72 il complesso dei partiti antidivorzisti aveva totalizzato il 60,2% dei voti, il risultato – a Salerno città – fu capovolto e il fronte del NO ottenne la vittoria con il 50,9%.
Nel frattempo, il 25 febbraio, vi erano state le dimissioni di Amarante da Segretario della Federazione, in effetti Amarante fu letteralmente “sollevato”, con qualche ambiguità ma con la solita pesante incombenza di Abdon Alinovi. Il nuovo segretario fu eletto Franco Fichera. Nel frattempo il Paese in quell’estate del ’74 dovette affrontare una nuova stagione dello stragismo fascista, l’apparire tragico delle BR, l’autunno dell’inflazione galoppante, una nuova stagione di “ristrutturazione” industriale con massicce minacce di licenziamenti.
A livello nazionale anche gli ultimi due mesi di quell’anno furono densi di lotte e di scioperi e mobilitazioni, l’8 novembre ci furono 4 ore di sciopero generale, sempre collegato alla vertenza su salari e occupazione e la richiesta di una nuova politica economica, con una grande giornata di lotta unitaria con milioni di lavoratori -operai, studenti, braccianti- in piazza in tutte le province italiane, l’unità sindacale dà così un’ennesima prova di forza.
Importante sottolineare come la complessità del movimento di quegli anni si espresse anche con un’altra manifestazione premonitrice di quello che sarà il movimento delle donne, il 14 novembre a Roma 50.000 donne sfilarono rivendicando un loro diverso ruolo nella società e per un nuovo diritto di famiglia.
Il 29 novembre ancora nuove manifestazioni a scacchiera con presidi di massa in varie città, con l’obiettivo della revisione delle tariffe elettriche, ma anche in preparazione di un altro sciopero generale per i primi di dicembre.
Infatti l’anno si chiuse il 4 dicembre, proprio con uno sciopero generale di 4 ore sempre sulle stesse parole d’ordine, difesa del salario, dell’occupazione e una nuova politica economica.

5/Fine


Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *