Qualche settimana fa è morto Sergio Gallo. Per chi non l’avesse conosciuto, prima di tutto una persona perbene. È stato un giornalista, un comunista e un professionista scrupoloso, preciso e severo, quando ci voleva. Una memoria storica della città, del lavoro in questa città e del Partito comunista napoletano, dalla ricostruzione in poi. Ma per me, Sergio resterà per sempre solo e semplicemente un maestro. Come Nora Puntillo. Una sorta di secondi “mamma e papà” per me, che a vent’anni – il 12 settembre del 1976 – mettevo piede in via Cervantes, nello “stanzone” sede della redazione napoletana de l’Unità.
Dico di Sergio e di Nora perché un ragazzo, a vent’anni, avrebbe sempre bisogno di maestri capaci di trasmettere conoscenze e indicare una strada. Non accade spesso. Oggi, in realtà, non accade praticamente più. Bisogna esser fortunati, e noi lo fummo: in quegli anni, infatti, il Pci e la nostra redazione rappresentavano una scuola (professionale, politica e di vita) con pochi uguali. Sarà forse perché a me piace pensarla così, ma credo che la fortuna e la bella avventura che è poi capitata a tanti di noi – parlo dei ragazzi e delle ragazze di allora: Maddalena, Marcella, Marco, Procolo, Antonio, Gigi, Franco, Vito e tutti gli altri – abbia le sue radici proprio lì, in quel rigore e in quella asciutta serietà tramessaci da Sergio, da Nora e da Rocco Di Blasi, il mio primo e indimenticabile capocronista.
I maestri spesso sono severi. Talvolta duri. Ma gli anni in cui noi cominciammo a “prender lezione” erano anni così ribollenti che assorbivi qualunque rimprovero, tanto erano l’entusiasmo e la voglia di tornare a lavorare in strada. In realtà, a ripensarci ora, non è che fosse sempre così esaltante… Saranno passati – anzi: sono passati – quarantacinque anni da quel giorno, ma ricordo ancora perfettamente il mio primo “servizio giornalistico”: fare nei due sensi tutta via Roma (via Toledo) per contare su entrambi i lati della strada quanti cartelloni pubblicitari ci fossero, per poi riferire il numero preciso a Nora Puntillo, che stava preparando un servizio sulle pubblicità illegali. A dirlo oggi, non ci si crederebbe: ma anche quello, quel giorno, mi sembrò un compito di altissima responsabilità.
Del resto, avremmo fatto di tutto – noi giovani apprendisti: pagati, per anni, due soldi in nero – per salire sulla giostra fantasmagorica che era la Napoli di quegli anni (e purtroppo anche di quelli a venire). C’era finalmente la prima giunta comunale di sinistra, con al vertice Maurizio Valenzi, per noi un santo laico. C’era, tristemente, la camorra che adottava nuove forme e dichiarava nuove guerre: con cumuli di morti di cui si sarebbe parlato nel mondo. C’erano le Grandi Fabbriche – l’Alfasud, l’Italsider – che cominciavano la loro agonia. C’era il terrorismo, con le sue storie di gioventù bruciate ed i suoi morti. E ci sarebbe stato il terremoto: una tragedia, ed una drammatica esperienza professionale indimenticabile per tutti noi.


Dalla nostra postazione e attraverso le cronache che noi stessi producevamo, osservavamo e indagavamo una città che sembrava volersi dare un’ultima chance. Le salite e le discese del PCI. Più modestamente, le salite e le discese della nostra diffusione. Gli alti e i bassi intorno a noi. E gli errori. I successi e gli errori, intendiamo, di un partito che era finalmente arrivato, per la prima volta, alla guida della città. Era una Napoli affaticata ma effervescente, ancora piena più di vita che di rancore.
Separare la storia del nostro collettivo di lavoro da quel che accadeva in quegli anni a Napoli, non aiuterebbe a capire la marea di stimoli e di difficoltà che ogni mattina inondava lo “stanzone” di via Cervantes (numero 55, per la precisione). Per i più giovani, molti avvenimenti rappresentavano un inedito assoluto. Ed è lì che arrivavano in soccorso i maestri. Ho detto di Sergio, di Nora e di Rocco: e dico meno di Felice Piemontese solo perché viveva la redazione più solitariamente, in un modo tutto suo. Ma sarebbe una imperdonabile omissione non ricordare Mario Riccio, il nostro fotografo, per usare una definizione che ne circoscrive molto – però – il rilievo e il ruolo. Come in una sorta di scuola guida – mi si passi l’esempio – Sergio, Nora e Rocco erano quelli dai quali imparavi la teoria: poi uscivi con Mario, andavi sui posti – come si dice in gergo – e apprendevi sul campo quanto fosse difficile anche la pratica. Mi chiamava Fefè, gli ho voluto bene come a un fratello maggiore.
Anche a Giulio Formato abbiamo voluto tutti bene. Ma non lo vedevamo mai. Aveva una sua postazione in Questura, a duecento metri dal giornale, ma avrebbe potuto anche essere a Milano: per noi sarebbe stato lo stesso. Ci parlavamo solo per telefono. Faceva un lavoro che non esiste più: raccontava a qualcuno di noi le notizie di cronaca nera del giorno (le minori, perché per le più importanti si correva sul posto) e noi le scrivevamo. A lui le aveva raccontate qualche funzionario della Questura, al quale le aveva raccontate qualcuno degli agenti presenti al fatto. E così, di racconto in racconto – tramandati oralmente – furti, rapine in banca e incidenti stradali finivano sul giornale. Ho imparato a scrivere anche così: provando ad ambientare in un contesto nomi senza volto, morti senza sangue e rapine senza spari.
Abbiamo conosciuto giornalisti importanti, in quella redazione. Grandi inviati. Commentatori che sarebbero diventati direttori. Venivano a l’Unità per avere notizie certe, e qualche soffiata su quel che succedeva a Palazzo San Giacomo, su chi era quel giovane Bassolino e com’erano davvero i suoi rapporti col sindaco Valenzi. Noi in cambio incameravamo curiosità, voglia di crescere, di conoscere meglio il mestiere e di metterci alla prova in altri contesti. Perfino nella “stampa borghese”. Lavorare in altre città. La prima, per molti di noi, fu Roma. Anzi, l’Unità di Roma. Io ci andai nel gennaio del 1983 – chiamato da Macaluso, altro indimenticato maestro – e ci rimasi sette anni. Qualcuno un po’ meno, qualche altro la vita. Tracce di quella piccola redazione napoletana, però, sono sono impresse in tutti i più grandi quotidiani nazionali. Spesso in evidentissimo rilievo. Eravamo, senza false modestie, una bella squadra.
Dove, però, non è che filasse sempre tutto liscio. O che fossimo ogni volta d’accordo. E le divisioni – comprensibile, a quel tempo – erano spesso più politiche che professionali. Anche noi ci dividevamo tra ingraiani e “miglioristi”. E per stare alle cose nostre, tra tifosi della giunta Valenzi e suoi severi critici. Non era scontato che ci fossero dubbi sull’azione dell’amministrazione – soprattutto ai suoi primi passi – anche nella redazione dell’organo ufficiale del Partito. Erano accolti, naturalmente, senza problemi. Si cercava solo di evitare – altrettanto naturalmente – che quei pareri trasparissero troppo evidentemente dalle pagine della nostra cronaca. Non sempre ci si riusciva: e talvolta Rocco – che pure aveva il suo peso politico in città e nel Partito – era oggetto in questo o quell’organismo dirigente di qualche frettoloso tentativo di “processo”, che finiva puntualmente con un onesto non luogo a procedere.
A questo punto della storia, si dovrebbe dire del terremoto. Ma io davvero non ci riesco. Ricordo solo, con incredulità, le condizioni in cui si lavorò la notte del 23 in mezzo alle macerie dell’alta Irpinia. Non esistevano i computer. Non esistevano i cellulari. Si dettava a braccio da qualche bar rimasto in piedi o da una rara cabina telefonica. E anche lì: niente monete o carte di credito, solo gettoni. Un inferno, allora. Molto romantico, a ricordarlo adesso.
Più interessante sarebbe ricordare e discutere gli effetti che quel terremoto ebbe sulla città e sul suo destino. Quali scelte furono giuste e quali no. Che parte vi giocarono il Pci ed i suoi dirigenti, e cosa avrebbero da rimproverarsi adesso. Ma il racconto si farebbe politico, e scivoloso: e non è il caso, almeno qui. Lo”stanzone”, del resto, intanto si andava lentamente svuotando. Roma, Bologna, “la Repubblica” e poi Mosca, il “Corriere della Sera”, “La Stampa”, Bari, la Rai… La redazione napoletana de “l’Unità” aveva preso il mare aperto. E però – come si è tanto ripetuto in questo tempo di pandemia – distanti ma vicini. Legati da qualcosa. Sempre vicini, almeno per me. E sempre armati degli insegnamenti dei primi maestri. Quelli che ci ripetevano “scrivi quello che devi scrivere… non siamo la Pravda, noi siamo “l’Unità””.

Federico Geremicca

La foto dell’immagine in evidenza è tratta dall’Archivio Mario Riccio-Infinitimondi. Mario Riccio e Federico Geremicca a Lioni nei mesi successivi al terremoto del 1980.

QUI TUTTI GLI INTERVENTI PRECEDENTI DI NANDO MORRA, LUIGI VICINANZA E DELLA RDDAZIONE SU ROCCO DI BLASI, MARCELLA CIARNELLI,FEUCE PIEMONTESE,ENNIO SIM EONE,VITO FAENZA,ROCCO DI BLASI,BENITO VISCA,LUIGI VICINANZA https://www.centoannipci.it/category/perr-una-storia-de-lunita-di-napoli/

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2 commenti

  1. Condivido con forte apprezzamento la “confessione laica ” di Federico Geremicca .E nelle confessioni si dovrebbe dire la verità …qui non serve il condizionale.
    Bella pagina,ricordi fragranti e dunque vivi che,voglio dirlo,anche se con ruoli diversi,ci accomunano….quei tempi,quelle REDAZIONI ,nella sostanza le ho vissute..per dovere di ufficio…quasi quotidinamente.Giusto ricordare i Maestri e anche Formato,Gallo ,Felice Piemontese e il grande Mario Riccio .Le redazioni napoletane “nostre” non erano alberi singoli ma una “piantagione” di radici straordinarie :una grande Alta Scuola di giornalismo…un abbraccio circolare ,nando morra

  2. Caro Chicco, leggendoti mi hai fatto ancora rimpiangere e pentire, a distanza di tanti anni (era il 1976), quel «…Per ora no, Andrea, aspettiamo di partire, ne riparliamo tra qualche mese…», che opposi a tuo straordinario padre quando mi propose quasi timidmente di prenderti nella squadra del resuscitato “Paese sera” edizione di Napoli. Il timore era che il cognome Geremicca, troppo noto politicamente, potesse contravvenire alla direttiva ricevuta da Amerigo Terenzi di presentare quel giornale come “indipendente” dal Pci nel momento in cui si profilava un (per noi) proficuo sciopero del “Mattino”. Te lo confessai pubblicamente già qualche anno fa, quando ci ritrovammo a Napoli, al Maschio Angioino, alla cerimonia in ricordo di Mario Riccio.

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