1 A corredo del precedente articolo, voglio ancora ricordare in breve le estati trascorse a Roma, lavorando per l’Unità in sostituzione dei redattori andati in ferie, e un mio viaggio in Palestina (ma ero già andato via da “l’Unità”, era il 1971) su invito del Fronte Democratico di Liberazione della Palestina di George Habbash.
A Roma ero ospite di un caro amico, anche lui giornalista presso la redazione dell’Agenzia Italia, la casa era vicina al Lungotevere, in pieno centro. Il mio impegno per il giornale consisteva nel raccogliere le corrispondenze che provenivano dalle varie sedi, preparare i menabò e controllare la stampa. Era un lavoro che finiva praticamente a notte tarda, alla fine non mi rimaneva che mangiare qualcosa e andare a dormire. Se avessi avuto qualche velleità mondana, sarebbe stata frustrata dalle circostanze…
Il clima de “l’Unità” era talvolta severo, direttore era Mario Alicata, intellettuale combattente, già impegnato sulle questioni del Mezzogiorno e promotore con Gerardo Chiaromonte e altri dell’uscita di “Cronache meridionali”; il mio referente in redazione era Alessandro Curzi, caporedattore sornione e intelligente, capace di trovare soluzione a qualsiasi problema nel giro di pochi minuti; incontravo spesso Aris Accornero, profondo studioso del movimento operaio, proveniente direttamente dalla fabbrica. Più tardi diventerà professore universitario, ascoltato e sempre consultato da altri esperti della storia dei lavoratori italiani e soprattutto rispettato dal movimento sindacale, che spesso lo consultava per conoscere la sua opinione sulle questioni più spinose.
Avevo altresì simpatia per Aggeo Savioli, che si occupava di scrittura e critica cinematografica, estroso e pieno di idee. Era noto anche per essere il fratello di Arminio, partigiano combattente, che aveva tra l’altro il merito di aver liberato Alfredo Reichlin dalle prigioni fasciste e di essere stato il primo giornalista italiano ad intervistare Fidel Castro. Rivedrò Aggeo più tardi, agli “Incontri internazionali del cinema cattolico” promossi ad Assisi in occasione dell’assegnazione del premio OCIC, cui mi trovai a partecipare per due anni in rappresentanza della “Casa della cultura” di Roma. Gli incontri prevedevano naturalmente dibattiti e discussioni. Aggeo era atteso in un pomeriggio, prese la parola esordendo così: “Sono Aggeo Savioli, giornalista, critico, ateo e comunista”. Non poteva ricorrere ad avvio peggiore. Il suo intervento, serio e motivato, fu seguito distrattamente e con qualche sussurro riferito più al suo esibizionismo che ai contenuti del suo discorso. Ho sospettato in realtà che gli faceva piacere talvolta “épater le bourgeois”, come dicono i francesi.

2
L’altra storia è piuttosto drammatica: a Napoli negli anni settanta studiavano molti giovani stranieri nelle università della città, uno di questi era un palestinese, si chiamava Noureddine e spesso frequentava la sede della Federazione del PCI. Era simpatico e sospettavo che facesse anche azione di sostegno al movimento palestinese e ne ebbi conferma un giorno che mi avvicinò e mi chiese se ero interessato a fare un viaggio di studio e di scambio di opinioni in Palestina, ospite del Fronte democratico di liberazione. Il suo invito fondava sul fatto che ero giornalista, dirigente del PCI e consigliere comunale di Napoli e dunque che al ritorno potevo essere un efficace diffusore delle ragioni dei palestinesi. Accetta l’invito rinunciando anche in questo caso alle mie ferie, nella speranza altresì che dal viaggio potevo ricavare una inchiesta in più puntate per “l’Unita” o per “Rinascita” o addirittura preparare un libro per gli “Editori Riuniti”.
Dunque, una sera d’estate mi imbarcai su una nave della “Tirrenia” per Alessandria d’Egitto. All’arrivo avrei trovato dei ragazzi del Fronte che mi avrebbero portato a Beirut in auto; a me si era aggiunta una compagna, in qualche modo interessata a vivere la stessa esperienza. All’imbarco conoscemmo due giovani romani che andavano nella stessa direzione, ospiti del Fronte popolare, e Attilio Wanderling, che seguiva la loro stessa strada.
Il viaggio in nave fu indescrivibile: la stiva era divisa in due cameroni, donne e uomini, con letti a castello, intere famiglie di arabi si trascinavano con bambini e animali, galline cani persino una capra, la notte passò tra canti, preghiere, pianti e gemiti.
I ragazzi che ci aspettavano erano più o meno della mia età, il viaggio verso Beirut si svolse comunicando in francese, arrivammo dopo circa 12 ore, ormai era notte. Fummo ospitati in una delle sedi del FDLP, il giorno dopo facemmo vari incontri e potei programmare come procedere: avevo previsto di incontrare i vari capi del Fronte, il corrispondente del giornale Al Ahram con sede al Cairo, i dirigenti di varie associazioni e il coordinatore del Centro di ricerche palestinese, raccogliendo materiale e sistemandolo per poterlo utilizzare al ritorno. Beirut, considerata in Occidente la cassaforte dell’Oriente, era una città bellissima, con una gioventù intelligente e curiosa. La attraversai in ogni direzione, ma la sera tornavo agli alloggi, il pericolo a rimanere fuori era forte e incombente. Qualche mattina, uscendo presto dall’alloggio che ci ospitava, ci imbattevamo in qualche cadavere morto ammazzato, il suo abbigliamento faceva pensare ad un fedayn e la mia sorpresa e il mio orrore nascevano dall’apprendere che era sicuramente la vittima di scontri armati avvenuti tra le diverse organizzazioni palestinesi, che coltivavano un odio, ognuna nei confronti delle altre, che non si fermava neanche di fronte allo spargimento del sangue.

3 La conferma di una situazione così estrema l’ebbi qualche giorno dopo: fui accompagnato ad un incontro aperto di tutte le organizzazioni palestinesi e mi trovai di fronte a centinaia di combattenti armati di tutto punto. La fine del confronto, immaginai, lo avrebbe determinato l’organizzazione meglio armata.
Un incontro particolarmente interessante lo ebbi proprio con il corrispondente da Beirut del giornale Al Ahram, il quale aveva simpatia per il FDLP e si espresse in termini molto obiettivi, guardando alla prospettiva del popolo palestinese senza nascondere la propria critica a posizioni velleitarie ed esasperatamente ideologiche, che non consentivano alcuna possibilità di confronto con i Paesi che pure manifestavano solidarietà con quel popolo, ma che non avrebbero mai sostenuto uno scontro bellico definitivo con Israele.
Dopo qualche giorno i dirigenti del FDLP decisero di trasferirci in un campo di addestramento dei fedayn in Giordania. Prendemmo posto in un taxi “collettivo” e partimmo; a sera arrivammo alla frontiera con la Siria e lì, mentre ai miei compagni di viaggio fu consentito di proseguire, io fui bloccato perché sul mio passaporto era indicata la professione di giornalista e non avevo il “permesso” che avrebbe dovuto rilasciarmi l’ambasciata siriana in Italia. Insistetti in ogni modo perché mi fosse consentito il proseguimento del viaggio e i militari al confine inviarono un messaggio urgente a Damasco per avere istruzioni dal lo Ministero degli Interni. Alla fine il messaggio arrivò, negativo. Non potevo proseguire e mi trovai in piena notte, lontano da Beirut, respinto da Damasco e senza alcun mezzo di locomozione per tornare indietro.
La soluzione mi fu offerta da un taxi che rientrava. Fu fermato dai militari che chiesero al conducente di portarmi a Beirut, se quella era la sua meta. E lo era, il tassista mi fece sedere accanto a lui, si notava che aveva molta paura, come me d’altronde, e cominciammo a comunicare in qualche modo. A Beirut ci fermammo in una locanda per mangiare qualcosa, alla fine volle assolutamente pagare la cena, quando ci salutammo ci abbracciammo, in qualche modo fratelli.
Nei giorni seguenti proseguii negli incontri e fui preso momentaneamente in “custodia da un’associazione italiana impegnata in Medio Oriente sui problemi della pace, poi mi trasferii ad Amman in aereo. Dopo qualche giorno al campo di addestramento, a qualche chilometro da Amman, in una zona isolata attraversata da un piccolo fiume e circondata da rocce. Lì la vita si divideva tra studio, discussione, esercizi fisici. Tutto si svolgeva in una situazione spartana, nessuna tenda, nessuna comodità, si dormiva per terra, il cibo veniva preparato all’istante: insomma tutto era predisposto perché la nostra presenza non venisse scoperta e non lasciasse segni.

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Un pomeriggio passò sulla nostra postazione un aereo israeliano in perlustrazione. Il suo passaggio creò molte preoccupazioni ai responsabili del campo, che a sera ci chiesero di raccogliere le nostre cose e ci trasferirono al riparo di una parete rocciosa, lontani dal campo. Durante la notte piovve sul campo una serie di bombe, Israele ci aveva visti e sapeva dove eravamo, ma non dove ci eravamo riparati. C’era molta paura, la tensione era al massimo, la compagna che era con me continuava e ripetere in lacrime “moriremo, moriremo”. Finalmente tutto finì, riposare per quella notte era l’ultima cosa, tutti rimasero svegli e la mattina dopo affrettatamente venimmo riportati ad Amman, dove rimanemmo ancora qualche giorno, poi preparammo il nostro rientro. Il viaggio di ritorno fu altrettanto stressante come quello di andata.
Qualche giorno dopo incontrai Noureddine, che mi informò della morte per attentato del corrispondente da Beirut del giornale Al Ahram. Per me fu un colpo: venivano ammazzati i migliori amici dei palestinesi, in questo caso una persona che mi aveva particolarmente colpito per la sua intelligenza. Un anno dopo, nel settembre del 1972 “settembre nero”, gruppo armato di fedayn, trucidò 11 atleti israeliani in occasione dei Giochi Olimpici di Monaco di Baviera, lasciando sul campo sette dei suoi uomini.
Confesso che a quel punto, avendo già messo mano al lavoro per dare conto del mio viaggio in Palestina, non riuscii a continuare: mi sembrava di oltraggiare la vita e la morte di tanti caduti. Mi sono deciso solo adesso a darne un breve resoconto, forse più per non perdere del tutto la memoria del mio particolare vissuto che per testimoniarla a quanti desiderano conoscerne almeno una parte.

Benito Visca

Vorrei ringraziare, utilizzando il sito di “Infiniti mondi” (lo posso fare solo così, non usando Facebook) tutte le amiche e amici e le compagne e compagni cha hanno voluto testimoniare la loro adesione al mio precedente articolo sulla mia esperienza a “l’Unità” e offrirmi o riconfermare la loro amicizia, ricambiandoli di cuore e confermando in particolare a Sirio Conte che affettivamente al tavolo dietro al quale si riconosce Andrea Geremicca, è seduto Aldo Daniele, suo zio, che ho molto stimato. E vorrei scusarmi per un’omissione involontaria: aver dimenticato cioè tra i nominativi che componevano il quadro complessivo dell’edizione napoletana del quotidiano quello di Franco De Arcangelis, che si occupava della pubblicità .

IMMAGINE IN EVIDENZA. 1972.Congresso Provinciale. Dall’Archivio Mario Riccio-Infinitimondi

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QUI TUTTI GLI INTERVENTI PRECEDENTI DI FEDERICO GEREMICCA, NANDO MORRA, LUIGI VICINANZA E DELLA RDDAZIONE SU ROCCO DI BLASI, MARCELLA CIARNELLI,FELICE PIEMONTESE,ENNIO SIMEONE,VITO FAENZA,ROCCO DI BLASI,BENITO VISCA,LUIGI VICINANZA  https://www.centoannipci.it/category/perr-una-storia-de-lunita-di-napoli/





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4 commenti

  1. Rammaricato ,caro Benito,per non avere seguito il tuo primo intervento , trovo la tua narrazione coinvolgente ,intrisa di quella passione che ha costituito il lievito-madre della esperienza di tante compagni e compagni e ,al tempo stesso, laragione vera di ” scelte di vita” che è giusto ricordare .
    Un abbraccio,nando

  2. Grazie Benito per questi racconti delle tue esperienze di quegli anni, sono una testimonianza preziosa, dovresti scrivere un libro!
    Vittoria

  3. caro benito, come sempre una narrazione efficace,la mia generazione non ha fatto mai un viaggio all’est come è accadutoa te o a geppino d’alò, i paesi dell’est li abbbiamo vissuti solo ricevendo qualche delegazione perpompei ,capri e il Vesuvio.molta burocrazia più intenso il rapporto con la comunità palistinese a Napoli – una bella esperienza e un onore la loro amicizia.

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