Nel luglio del 1965 – come ho raccontato nella prima parte di questi miei ricordi – fui catapultato di nuovo a Napoli, con la qualifica di capo della redazione partenopea de “l’Unità”, prelevato in un batter d’occhio dalla “plancia di comando” romana de “l’Unità” (inventata dall’autorevole e autoritario direttore Mario Alicata, appena succeduto ad Alfredo Reichlin, con alla testa il vice direttore Luigi Pintor e il redattore capo Bruno Schacherl, affiancato da me e da Giuliano Antonioli con l’improbabile qualifica di “grafici”, ma con il ruolo di “guardiani” della coerenza tra l’edizione principale, di Roma, e le altre tre che venivano stampate a Milano, a Torino e a Genova, dotate di altrettanti direttori, autorevoli e autonomi (quali, rispettivamente, Davide Lajolo, Luciano Barca e Gelasio Adamoli) ma sotto la sovrintendenza del n.1 nella capitale, lui, appunto: Alicata).

Fui accolto dalla redazione (spostatasi in via Roma, “Palazzo Motta”) con la stessa tiepida cordialità che mi era stata riservata nella breve “visita di cortesia” nella sede del Pci dal segretario della federazione napoletana Giorgio Napolitano e dal segretario regionale Massimo Caprara (generosamente sorridente), mentre Andrea Geremicca – mio predecessore, diventato segretario cittadino del Pci all’insaputa di Alicata, che ne aveva appreso il trasloco di ritorno da una missione a Cuba – mi riservò un’affettuosa pacca d’incoraggiamento sulla spalla. Il più espansivo fu il gigantesco Pietro Valenza, che era stato direttore della Scuola di Partito quando l’avevo frequentata da allievo e col quale avevo trascorso molte delle ore libere serali discutendo e passeggiando nel parco delle Frattocchie dopo le le lezioni e le cene alla mensa comune. Avremmo rinverdito questa consuetudine diverse volte negli anni, discutendo e (perché negarlo?) anche spettegolando, bonariamente, nelle rare sere in cui mi capiterà di dargli un passaggio in auto verso casa.
In redazione Aldo Daniele non fece pesare per niente la rinuncia all’incarico che gli era stato assegnato impropriamente da Napolitano e che nel giro di poche ore gli era stato autoritariamente tolto da Alicata, anche perché di fatto avrebbe continuato a svolgere il ruolo che aveva con Geremicca: le cronache politiche. Giulio Formato idem: lo avevo conosciuto nella precedente stagione come la “colonna” della redazione. E tale rimaneva, forte delle sue origini operaie e del ruolo di tutore della continuità e delle regole redazionali, sia nell’occuparsi delle cronache sindacali, sia nella cura delle preziose rubriche “di servizio”, sia nell’estensione di pezzi di cronaca nera su input dei colleghi informatori dalla sala stampa della Questura (la mattina Luigi Ricci, che aveva lo stesso ruolo per Paese sera, e dal pomeriggio fino a notte Geppino Lucianelli, in esclusiva per l’Unità).
Il dinamismo, senza confini di competenze, era invece la nota dominante di Eleonora Puntillo: dall’inchiesta alla cronaca spicciola, dalla polemica corrosiva allo scoop sulle vicende urbanistiche, o all’ascolto dei lettori per la rubrica “Le voci della città” (di cui condivideva con Giulio Formato la gestione). Ma la sua campagna (culturale e sociale) sul bradisismo di Pozzuoli rimane una testimonianza di giornalismo di alto livello.
E poi tre preziosi e importanti “collaboratori” (definiti così solo perché avevano una loro professione prevalente, ma erano iscritti all’albo dei pubblicisti e avevano un ruolo determinante in quel collettivo redazionale): Michele Muro, ferroviere, raccontava con continuità lo sport con passione e competenza, senza farsi influenzare dal tifo per il Napoli (aveva preso il posto di quel Baldo Molisani, …inesistente perché pseudonimo, come ho raccontato nella prima parte di questo amarcord, di Aldo Biscardi; poi Paolo Ricci, pittore e scrittore, un’autorità in campo culturale, garantiva le cronache e le recensioni teatrali, con sconfinamenti anche in altri campi; infine Sandro Rossi, funzionario dell’Inps, che curava con puntualità e competenza le recensioni degli eventi musicali che pubblicavamo l’indomani, talvolta anticipando anche il “Mattino” e il “Roma”, perché lui veniva in redazione la sera tardi a scrivere le recensioni appena finito un concerto al Conservatorio o un’opera al San Carlo, costringendo la paziente, sorridente e finissima consorte ad accompagnarlo e ad assisterlo mentre pigiava nervosamente sui tasti della macchina da scrivere mordendosi la lingua.
A proposito di Sandro Rossi, consentitemi una parentesi (o una digressione) per raccontarvi, a margine, un curioso episodio. Una domenica mattina del 1966, quando già da un anno avevo assunto il ruolo di capo della redazione napoletana, mi trovavo da solo in sede a scrivere un pezzo nell’enorme stanza al primo piano del “palazzo Motta” con vetrate su via Roma, squilla il campanello. Benché infastidito, apro, e mi trovo di fronte uno strano personaggio: un giovanotto esile, un po’ glabro, con le gambe a X, di età indefinibile, che con tono perentorio si presenta: «Sono un musicologo». Lo accolgo malvolentieri, ma con, sia pur fredda, cortesia. E lui, senza esitazione: «Chiedo di poter fare il critico musicale». Obietto che il critico musicale ce lo abbiamo già e da diversi anni, ed è anche molto stimato. Lui mi risponde con un sorriso sprezzante: «Ah, quel Sandro Rossi. Un impiegato dell’Inps!…Ma io sono un musicologo!» E mi spara nome e cognome. Gli rispondo, imponendomi la calma, che non possiamo permetterci la spesa per un secondo critico musicale; ma lui reagisce di scatto: “Per carità! Ma lei deve mandar via Sandro Rossi, che non è un musicologo, e io prendo il suo posto perché sono un musicologo!». A quel punto mi alzo e lo invito a seguirmi verso la porta d’ingresso, anzi…di uscita, intimandogli di non farsi più vedere”. Diversi anni dopo, sfogliando il “Corriere della sera”, mi imbatto, nella allora prestigiosa “terza pagina”, in un lungo articolo di apertura, dedicato sulla “prima” della Scala con la sua firma: Paolo Isotta. Nei necrologi che sono usciti sui giornali nel febbraio scorso per la sua morte (a 70 anni) viene ricordato come uno dei più temuti, apprezzati e disprezzati, comunque geniali ma dissacranti critici musicali italiani, anche per i modi, spesso bizzarri, per non dire cervellotici, di giudicare. Non ho alcun titolo per assentire o dissentire. Dico soltanto che, pur nel rimpianto istintivo per la morte di una persona evidentemente di valore, resto tuttavia nella convinzione di aver fatto bene a difendere Sandro Rossi.
Ma ritorniamo alla redazione che trovai al mio ritorno, e in particolare a due compagni che avevo lasciato nel “limbo” redazionale: Sergio Gallo e Franco De Arcangelis.
Sergio ancora continuava, saltuariamente, ad alternare i compiti studenteschi a quelli di fattorino redazionale oltre a cimentarsi di tanto in tanto in articoli di cronaca, ma da giornalista “precario”. Franco era addetto alla raccolta pubblicitaria, nella quale riusciva a superare gli ostacoli che incontrava con le aziende per la diffidenza che allora ancora esisteva verso un giornale di partito, grazie alla capacità di dialogo che esibiva con i “clienti” facendo leva sul suo linguaggio colto. Di tanto in tanto scriveva articoli, che venivano pubblicati solo con la sigla, perché, per motivi oscuri, “il partito” (senza nomi e cognomi) “non voleva”. E poiché quei motivi non venivano… motivati, decisi di ignorare il misterioso divieto e di commissionargli degli articoli e di pubblicarli con la sua firma. Cosa che gli avrebbe consentito di chiedere e ottenere l’iscrizione all’albo dei pubblicisti. Diventò un bravo cronista di cronache sindacali.
Ma una colonna di quella struttura redazionale era Gennaro Pinto, capo (il termine esatto era: “responsabile”) dell’Ufficio diffusione. Un vulcano di idee e di iniziative promozionali, prodigo di suggerimenti e, quando ce n’era bisogno, anche di critiche al lavoro redazionale, sempre utili, sempre stimolanti. In quel campo a fargli da stimolo c’era il suo passato caratterizzato da due esperienze di vita: l’essersi cimentato in gioventù nell’avanspettacolo e l’aver partecipato alla guerra in Albania, dove aveva sposato, riuscendo poi a portarsela in Italia, la figlia di un dignitario locale espropriato dei suoi beni dal regime comunista.
Grazie a lui rilanciammo la diffusione dell’Unità davanti alle fabbriche, soprattutto con due appuntamenti settimanali il giovedì, con la partecipazione di giornalisti e dirigenti del Pci: a quello previsto davanti all’Italsider a Bagnoli (dalle 6,30 alle 7,30 del mattino lungo il viale che immetteva al grande stabilimento, dove in così breve lasso di tempo sfilavano 7mila operai del primo turno), partecipava spesso con noi anche Giorgio Napolitano; e quello davanti alla Manifattura Tabacchi nella parte opposta della città, dove partecipava spesso anche Massimo Caprara.
Gennaro Pinto (coinvolgendo anche Franco Feliciotti, poi diventato fotografo della redazione in coppia con Mario Riccio), fece diventare la “Befana dell’Unità” un evento per Napoli e provincia e per centinaia di famiglie, che si protraeva ogni anno per un mese, dalla raccolta di fondi e regali fino alla consegna dei doni ai bambini in uno spettacolo in un grande teatro della città con la partecipazione gratuita di star della ribalta non solo napoletane: da Nino Taranto a Sergio Endrigo a Fred Bongusto, tanto per citare solo quelli che ricordo.
Con Pinto decidemmo di proporre alla Direzione e all’Amministrazione dell’Unità di aumentare l’edizione napoletana almeno di una pagina per accogliere anche alcune corrispondenze dalle altre province della Campania. Divenne così un’edizione regionale, che impose il rafforzamento della struttura redazionale. Questo mi consentì non solo l’assunzione, finalmente, di Sergio Gallo, ma anche di un giovanissimo scrittore e poeta come Felice Piemontese (per la cultura e non solo), di un altrettanto giovane e vulcanico mio concittadino, Geppino Mariconda (rivelatosi subito un cronista di assalto, caratteristica che lo contraddistinguerà sempre nelle successive esperienze a Paese sera e alla Rai), poi di Gianni Cerasuolo e di Marco De Marco, entrambi di Pozzuoli, l’uno propostosi per lo Sport (cosa che mi consentì appena possibile di fargli fare il “salto” alla redazione nazionale sportiva di Roma, dalla quale passò, anni dopo, a “Repubblica”), l’altro “scoperto” per un articolo culturale pubblicato dal giornaletto di quartiere fondato dal segretario di sezione del Pci, Luigi Nespoli. Diventerà, anni dopo, direttore de l’Unità e poi vice direttore del Corriere della sera.
Da questo potenziamento della nostra squadra napoletana la direzione nazionale del giornale si autorizzata ad affidarci “missioni” al sud e anche all’estero. Perciò venni inviato – nel periodo a cavallo tra il dicembre del ’70 e il gennaio del ’71, l’anno della istituzione delle Regioni, a seguire i “moti di Reggio Calabria” contro la scelta di Catanzaro come capoluogo: «Pochi giorni», mi dissero, ma la missione durò un mese e mezzo, durante il quale però la redazione napoletana funzionò perfettamente, con il ruolo di vice affidato a Felice Piemontese. E qualche anno più tardi analoga missione in Portogallo, quasi in clandestinità, per un réportage sulla opposizione della sinistra al regime ereditato da Caetano dopo la morte di Salazar, seguìto due anni dopo, da un ritorno a Lisbona per raccontare una realtà di segno opposto: la vittoria della “rivoluzione dei garofani” contro il nuovo dittatore.
Ma intanto in Italia la realtà politica e sociale mutava, con tre importanti eventi in rapida e tumultuosa evoluzione:
1. L’esplosione anche a Napoli del “Sessantotto”, caratterizzato soprattutto dalla contestazione del movimento studentesco, e dalle quasi quotidiane manifestazioni.
2. Le ripercussioni di questo movimento nella vita e negli equilibri del Partito Comunista accompagnate dai “sommovimenti” che esse determinavano con le contestazioni di cui si facevano portavoce Massimo Caprara e Antonio Bassolino, che influenzavano anche una giovane giornalista da poco assunta nella nostra redazione per le cronache sindacali, Lina Tamburrino (con brillante laurea in Economia) e, di riflesso, anche Felice Piemontese, aderente al movimento culturale Gruppo 63.
3. La nascita e l’entrata in produzione dell’Alfasud a Pomigliano d’Arco, con nuove istanze di una classe operaia che sconvolgeva, nel bene e nel male, i canoni ai quali eravamo abituati, anche per via di alcuni picchi di scioperi indetti in concomitanza con qualche partita notturna del Napoli trasmessa in tv. Cosa di cui scrissi senza peli sulla lingua, nonostante il dissenso di Lina Tamburino.

L’estensione della attenzione all’intera regione prese forma nel 1973 con la decisione, promossa dal nuovo segretario regionale del Pci, Abdon Alinovi, di propormi (quasi in competizione con analoga iniziativa assunta in Piemonte) di fondare un settimanale regionale. Mi convocò nella sede del Comitato regionale del Pci e me lo propose così: «Hai visto che cosa hanno fatto in Piemonte? Il segretario regionale del Pci, Diego Novelli (nota: ex capo della redazione piemontese de “l’Unità”) ha fondato una rivista settimanale regionale di cui ha affidato la direzione a Giuliano Ferrara, il figlio di Maurizio, tuo ex direttore dell’Unità. E noi non siano capaci di fare la stessa cosa qui?».
Quando – in un successivo colloquio – mi confessò quale spesa era in grado di sostenere il partito, gli risposi che si poteva fare al massimo un quindicinale. Però doveva provvedere a retribuire almeno un redattore a tempo pieno, ruolo per il quale gli indicai il nome di Matteo Cosenza (figlio ventenne di quel Saul Cosenza, operaio dei Cantieri navali di Castellammare di Stabia e dirigente del Pci) che, oltre a fare il corrispondente de “l’Unità” da Castellammare, aveva messo su anche un periodico locale molto ben fatto, “la Scintilla”. Io l’avrei diretto, ovviamente gratis, nei ritagli di tempo ricavati dal lavoro per l’Unità ed altri sacrifici, anche tutte le collaborazioni sarebbero state gratuite, ma bisognava reperire i fondi per la carta e per la stampa, per la quale un prezzo speciale, gli dissi, è pronto a farcelo la piccola tipografia del compagno Orazio Boccia, che si trova a Salerno, in un sottoscala del centro.
E poi questa rivista, non essendo un organo di partito, deve avere una sua sede propria. “In via Cervantes, dove ci siamo trasferiti recentemente, come sai, dopo aver lasciato il Palazzo Motta, sia per risparmiare sull’affitto sia per essere più vicini alla Questura per le notizie di cronaca nera e alla Posta per la trasmissione degli articoli via telescrivente, e anche più vicini a voi – gli dissi – c’è un piccolo appartamento al 5° piano, dove si può sistemare “la Voce della Campania“. «Alt! – mi replicò Alinovi – la testata dobbiamo deciderla in una riunione del Comitato regionale del Pci». Gli risposi che si avvicinava l’estate e non si poteva perdere tempo. La testata l’avevo già registrata in Tribunale come direttore editoriale (però con la firma dell’avvocato Mariano Cecere, collaboratore de “l’Unità” per le cronache giudiziarie, come direttore responsabile), ma non doveva farne parola con i compagni del Comitato regionale: doveva proporgliela e farla decidere… democraticamente a loro. E democraticamente la decisero, con la motivazione che gli avevo suggerito: “la Voce” era il quotidiano che subito dopo la Liberazione era uscito per iniziativa del Pci e del Psi nel Mezzogiorno d’Italia, sotto la direzione di Mario Alicata, il direttore de “l’Unità” che 8 anni fa mi aveva rispedito a Napoli.
Il primo numero della “Voce della Campania” uscì a luglio del 1973, una settimana prima che a Napoli scoppiasse il colera. Un tragico evento che ci obbligò a saltare il secondo numero, forse due (non ricordo bene). Ma poi andò benissimo, come ci augurò Eduardo con foto autografa, grazie all’amicizia che con lui aveva Paolo Ricci.
E si aggiunsero poi gli articoli con la firma del magistrato Luigi Scotti, e quelli del sociologo Domenico (Mimmo) De Masi e di colui che sarebbe diventato, due anni dopo, nel 1975 , il primo sindaco comunista di Napoli: Maurizio Valenzi. Ma soprattutto di un giovane dirigente dell’Alleanza Contadini con laurea in Filosofia, quel Rocco Di Blasi*, che poi avrei segnalato per prendere il mio posto a capo della redazione dell’Unità di Napoli, cosa che avvenne quando Amerigo Terenzi (super-editore di fatto di tutta la stampa del Pci) mi fece affidare dal direttore, Arrigo Benedetti, il rilancio della redazione napoletana di “Paese sera” (anno 1977).

E intanto quel “bulldozer” di Matteo Cosenza – che aveva arruolato come correttori di bozze due ragazzi di Castellammare, Antonio Polito e Luigi Vicinanza (che già collaboravano con la sua “Scintilla”) – quando lasciai a lui la direzione della “Voce” per tornare a Roma nel 1977 da redattore capo di “Paese Sera” e poi da vice direttore al fianco di Andrea Barbato, riuscì a coinvolgere, tra gli altri, anche lo storico Giuseppe Galasso e il giovane Franco Di Mare (oggi direttore della 3° rete Rai) ed altri ancora. Facendoli diventare (sì, anche loro con lui)… “Ragazzi di via Cervantes”.
Ennio Simeone
Dedicato a Rocco
Il 20 marzo scorso, quando era stata messa on line su Infinitimondi la prima parte di questi miei ricordi, Rocco mi aveva mandato una mail: «Ennio, sentirti mi fa sempre piacere. Leggerti perfino di più. Buona vaccinazione».
Gli avevo risposto: «Caro Rocco, grazie per il tuo commento alle… mie memorie. A te, come immaginerai, tocca un pezzo della seconda parte (1965-1976) che cercherò di scrivere in questi giorni, dopo la vaccinazione. Intanto mi sono goduto le tue, con grande piacere, anche perché alcune mi hanno fatto scoprire cose che non conoscevo sui…giovanotti che avevo ingaggiato ragazzi, freschi di liceo, ma racconterò pure di come sottrassi all’Alleanza Contadini un giovanotto laureato… in Filosofia. Un abbraccio».
Non immaginavo che quell’abbraccio, da lì a pochi giorni, sarebbe diventato un addio.
Ennio

***
QUI TUTTI GLI ARTICOLI USCITI : https://www.centoannipci.it/category/perr-una-storia-de-lunita-di-napoli/
Ciao Ennio, l’aneddoto di Paolo Isotta me lo raccontasti tanto tempo fa. Meraviglioso. Quegli anni meriterebbero un tuo libro. Hai una memoria di ferro. Ciao, Massimiliano Gallo
Gentile Massimiliano, ci farebbe piacere se potesse aiutarci a ricostruire il grande contributo che Sergio a dato al giornalismo e alla cultura napoletani : ricordi, documenti, articoli, immagini, suggestioni…qualunque cosa lei ritenga possa essere utile. Del resto tratti suoi importanti stanno già emergendo dai diversi contributi che stiamo raccogliendo e che tutti insieme andranno a comporre un volume dedicato alle vicende della Redazione napoletana de l’Unità che vorremmo dedicato anche a Sergio. Sperando di poterci risentire, ci scriva a infinitimondirivista@gmail.com. Un caro saluto
Favoloso! Ennio Simeone giornalista esemplare