Giovedì, 18 febbraio del 1965, il mio primo giorno di lavoro nella redazione napoletana de l‘Unità in via Toledo 156 ( palazzo Motta). Da “abusivo”, o più elegantemente “volontario”, oggi si direbbe “precario”, insomma da “ragazzo di bottega”, desideroso di imparare senza alcuna retribuzione. Ero già molto legato al giornale perché a Roma negli anni del liceo, ogni domenica mattina, come vice segretario della sezione “Borgo Prati”, partecipavo alla diffusione e avevo anche il compito di recapitare la copia del quotidiano a domicilio. Ad uno in particolare la dovevo lasciare davanti alla porta di casa. “Si sveglia tardi”, mi spiegarono. Seppi chi era quando –qualche mese dopo- dovetti consegnargli la tessera di partito: era Elio Petri, non ancora il regista che poi ha contribuito alla storia del cinema italiano. In quel periodo, inizi anni sessanta, il sen. Edoardo D’Onofrio, che partecipava spesso alle nostre riunioni nella sezione “Trionfale” in via Andrea Doria, mi propose di frequentare un corso di formazione politica all’istituto Anselmo Marabini di Bologna. Tre mesi di studio, di dibattiti, di confronti, di approfondimenti e la “invenzione” di un giornalino ciclostilato che distribuivamo anche in città. A conclusione uno dei docenti mi chiese se ero disponibile a frequentare l’Unità. Il giornalismo era lontano anni luce dalla mie prospettive: figlio di avvocato, iscritto alla facoltà di giurisprudenza, pensavo di essere destinato ad ereditare un avviato studio professionale, quindi risposi semplicemente: “Ci penso”. Poi più per curiosità che per altro feci vista al secondo piano di via dei Taurini, 19. Mi accolse Ennio Simeone, irpino come me, capo della pagina “varie” e mi convinse. “Prova” mi disse “puoi sempre rinunciare e fare altro”. E mi affidò la scrittura di una “breve”, che non dimenticherò mai: trattava il cambio delle patenti di guida da primo, secondo e terzo grado alle attuali B, C, D etc.
Vedere quelle sette/otto righe, scritte con fatica, stampate in pagina fu una emozione straordinaria, altro che articoli …ciclostilati, che sembravano raccolte di volantini. Decisi di provare. Ancora qualche giorno alla “varie” (voleva dire cronaca, attualità) poi impaginazione alle “province”, un anno corrispondente da Avellino, dove tornavamo con tutta la famiglia quando si chiudevano le scuole, e il suggerimento del direttore Mario Alicata: “devi fare un’esperienza più incisiva e completa: in una redazione distaccata. Dove vuoi andare? ”. La scelta fu obbligata: Napoli, dove avevo parenti che potevano ospitarmi. Dei componenti la redazione napoletana conoscevo solo Giulio Formato. Lo avevo incontrato per qualche ora ai funerali di Palmiro Togliatti nell’agosto precedente, componente –come me- della delegazione campana. Lui da Napoli, io da Avellino, inviati a raccontare emozioni , commozione e dolore dei militanti per la scomparsa dello storico leader.
Ma torniamo al terzo giovedì di febbraio: mi trattenevo, da qualche ora, più spaesato che emozionato, in una delle cinque stanze della redazione quando arrivò la notizia di un pullman precipitato dal viadotto di San Giovanni a Teduccio. Eleonora Puntillo, la mitica maestra di tanti di noi, e Franco Feliciotti, il fotoreporter di redazione, mi dissero: “vieni con noi così impari come si raccolgono e si verificano le notizie”. Sul posto, una ventina di morti, restammo qualche ora, uno sguardo alle linee tracciate sulla carreggiata, la strada allora era molto più stretta di oggi e c’erano percorsi alternati con doppia linea bianca e con linea tratteggiata. Tornado in redazione e parlando con gli altri dissi la mia sulla dinamica ( presunta ) dell’incidente. Uno dei due conducenti, forse quello dell’auto, aveva tentato un sorpasso e non era riuscito a rientrare in tempo. Andrea Geremicca, capo della redazione ma soprattutto punto fondamentale di riferimento politico, culturale e professionale di tutti i redattori, ascoltando la mia testimonianza disse “non credo si andata così, percorro quella strada quattro volte al giorno e un sorpasso è impossibile”. Tacqui e quasi volevo mordermi la lingua; ma devo dire che il giorno dopo, mostrando una onestà intellettuale ed una professionalità unica, nella riunione mattutina di redazione disse: “ Mariconda ha ragione deve essere successo proprio quello che lui ipotizzava. Un sorpasso azzardato ”. L’amicizia con Geremicca nei mesi successivi fu cementata da preziosi consigli, solenni rimbrotti, molti suggerimenti, parecchie correzioni anche – devo confessarlo- di italiano e di grammatica. Un apprendistato fecondo con un meraviglioso maestro. Non furono tempi semplici, cominciavano a nascere dubbi sulle mie capacità, ma accadde una cosa incredibile. Ad agosto Andrea dovette assumere un incarico al partito e fu sostituito da Ennio Simeone, il mio promo “tutor”, come si direbbe oggi. Ed anche da lui insegnamenti fondamentali : “Devi andare sul posto e poi raccontare quello che hai visto nella maniera più semplice possibile” . L’occhio e la penna. I due simboli del lingottino d’argento, dono- simbolo dell’Unione Nazionale Cronisti Italiani ,l’Unci, della quale, per oltre trent’anni, sono stato consigliere nazionale. Occhio e racconto. Fu così che un bel giorno dovetti andare ad Agropoli, dove un veterinario Liborio Bonifacio distribuiva un siero anticancro, e il suo studio era quotidianamente affollato dai parenti di ammalati che speravano nel “farmaco miracoloso”. Mi accompagnava il segretario della sezione comunista di Battipaglia, un capostazione che mi “impose” l’invito a pranzo e mi offri la sua macchina da scrivere. Mangiando parlammo a lungo di una sua disavventura lavorativa, e soprattutto bevemmo un ottimo vino. Poi nel suo studio mi misi a scrivere. Ero decisamente su di giri. Dettai l’articolo agli stenografi di Roma e poi con calma, molta calma, tornai a Napoli. Il giorno dopo fui accolto in redazione dalla (troppo spesso) severa Nora Puntillo con un sorriso straordinario esclamando: “Ma allora sai scrivere. Bravo. Ottimo pezzo “. Rilessi quell’articolo che occupava buona mezza pagina nazionale – quella “varie” di cui sopra- e devo dire che ero riuscito a trasmettere le ansie, le speranze e le disillusioni che avevo provato insieme a quella folla di persone preoccupate se non disperate.


E nel salernitano ci sono tornato altre volte: per la rivolta del pallone a Salerno città; ma soprattutto a Battipaglia: 9 aprile 1969. La chiusura dello zuccherificio e della manifattura tabacchi provocò uno sciopero generale. Incaricato di seguire la manifestazione il corrispondente da Salerno Tonino Masullo. Intorno a mezzogiorno raccolgo la sua telefonata mista di emozione e disperazione: “La polizia ha sparato ci sono dei morti, da solo non ce la faccio a seguire, serve uno della redazione”. Con me in auto il fotoreporter Gaetano Castanò, della Pressphoto, che collaborava con noi. Meno di un’ora, all’epoca non c’erano autovelox, ed arrivai a Battipaglia, o meglio alle barricate che impedivano l’ingresso in città. Mi fermo un attimo tentando di individuare un passaggio e mi capita il classico colpo di fortuna: incrocio Adriaco Luise, corrispondente della Stampa – la mitica Stampa di Giulio De Benedetti- con il quale ho una profonda amicizia e colleganza per la quotidiana frequentazione e lo scambio di notizie. Adriaco,un maestro, uno dei cronisti più rigorosi e attenti, in poche battute mi fa il resoconto della mattinata: corteo, cariche, spari, due morti, la piazza, conclude, ora è in mano ai dimostranti. Lui doveva tornare perché aveva da scrivere per “Stampa sera”, l’edizione del pomeriggio, ed allora non c’erano computer, telefonini e tutto il resto. Doveva tornare a Napoli. L’intesa: avrei “coperto” anche per lui il resto della giornata. E così fu. Dallo studio di un dentista, dirigente della sezione di Battipaglia, dettai il pezzo tra una telefonata e l’altra di Abdon Alinovi che chiedeva il numero preciso dei morti per stilare il comunicato della Direzione nazionale. A Roma risultavano tre, ma io certo, delle informazioni di Adriaco Luise, continuavo a dire: “Due, sono due i morti un giovane ed una insegnante”. Poi seppi che l’Unità con il mio servizio in prima pagina fu stampata in anticipo e venduta davanti ai cinema dopo l’ultimo spettacolo, sia a Roma che a Milano. Una bella soddisfazione non solo professionale ma, come dire, anche “politica”.
Da allora le rivolte popolari, da quella di Castel Volturno contro lo scempio del territorio, alla città di Caserta “chiusa” per protesta contro la retrocessione della squadra di calcio; dalle guerre di camorra all’avvelenamento delle campagne a nord di Napoli, dai primi tragici eventi eversivi, fino al terrorismo dei Nap, dei brigatisti, ai sequestri di persona, mi videro testimone e resocontista. E quando parlavo con il caporedattore della “varie” a Roma la domanda era sempre la stessa: “di quale tragico fatto ti stai occupando?”. Così quando i “nappisti” nel carcere di Poggioreale sequestrarono un agente di custodia e chiesero di parlare con un giornalista, il magistrato accorso nel penitenziario per coordinare l’intervento della polizia, tra i cronisti presenti indicò me. Entrammo in un cella all’angolo di quella dove c’era il gruppo in rivolta e l’agente; li vedevo e mi vedevano: dovetti scrivere sotto dettatura un comunicato. Tra insulti e minacce, qualcuno conosceva anche il mio nome (seguivo da tempo le vicende dei Nap…), anche il “consiglio” a raccontare tutto in modo preciso, scrissi poche righe con una calligrafia quasi illeggibile. Non nascondo che le dita e la penna non erano fermissime. Uno mi aveva anche detto “ sappi che la tua vita vale 200 lire, il costo di una pallottola”. Geroglifici che riuscii ad interpretare quando all’uscita fui circondato da colleghi ansiosi di sapere. E dovetti faticare non poco a far passare sul giornale il mio articolo. La linea della fermezza, una scelta politica e professionale, impediva di riferire le farneticanti richieste “rivoluzionarie”.
Un racconto lungo di oltre dodici anni di attività tra palazzo Motta e via Cervantes 55 che mi hanno donato, oltre a rischi, insulti e minacce anche tante soddisfazioni. Ne elenco una per tutte. La più esaltante per il giovane cronista di un giornale di partito, quale l’Unità. Sabato pomeriggio mi avvertono da Roma che Ugo Baduel, il resocontista ufficiale dei comizi di Enrico Berlinguer, è malato e non può essere presente a Caserta l’indomani mattina per la manifestazione con il vice segretario nazionale. Occorre un sostituto: tocca a me. Resocontare Berlinguer? Non dormii la notte e portai con me mezza risma di carta e tre penne, caso mai una avesse fatto uno scherzo. Scrissi, quasi stenografando, l’intero intervento e mentre tutti dopo andarono a pranzo chiuso in una stanza delle federazione casertana provai a raccapezzarmi nel mare di appunti. Confesso: faticai e sudai molto. Anzi moltissimo. Non convinto di quanto avevo “tradotto” chiesi nel pomeriggio, al segretario regionale Abdon Alinovi, di dare uno sguardo al testo prima di trasmettere il servizio a Roma. Una, due, forse tre piccole correzioni più discorsive che sostanziali ed ebbi l’assenso. Avevo colto la sostanza del discorso. Pretendere i complimenti da un riservato intellettuale e acuto politico come Alinovi sarebbe stato troppo. Comunque non fu l’unica volta che dovetti confrontarmi con i resoconti. Da cronista “politico” ho tenuto a “battesimo” la prima giunta rossa di Napoli. Quella di Maurizio Valenzi . Le cronache del consiglio comunale potevano essere un pericoloso “tormento” specie per il redattore di un quotidiano di partito. E qui mi venne in soccorso l’ “inventiva”: per evitare accuse di estremismo o di censure, mi informavo in anticipo sui consiglieri iscritti a parlare, li avvicinavo e gli chiedevo un “riassuntivo” dell’ intervento. Con i rappresentanti degli altri partiti, ben felici di comparire anche su l’Unità, era facile; le difficoltà maggiori le incontravo con i compagni: “non so ancora, io vado a braccio e dipende da quello che dicono gli altri”, e cosi via. Una gran fatica poi a mettere insieme, come si direbbe oggi, in “diretta” il riassunto, perché entro una certa ora bisognava telefonare il pezzo. E capitava che i colleghi del Mattino e del Roma, che chiudevano i giornali a notte inoltrata, non riuscivano a capire come mai sull’Unità c’era il racconto anche degli interventi avvenuti a tarda ora.
Sul piano strettamente politico ho sempre rispettato il mio ruolo di militante disciplinato fin dallo storico congresso del 1969, quando giovani valorosi e futuri dirigenti politici, quali Antonio Bassolino, Eugenio Donise, Geppino d’Alò, Francesco D’Agostino, Giovanni Zeno e tanti altri sostenevano con entusiasmo le tesi “manifeste” di Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Luigi Pintor, mio primo vice direttore, e dei napoletani Liberato Bronzuto e Massimo Caprara. Delegato dalla sezione di Giugliano, nel rispetto del mandato ricevuto, sostenni le tesi del gruppo dirigente formato da Antonio Mola, Pietro Valenza, Andrea Geremicca, Maurizio Velenzi, Giorgio Napolitano, Carlo Fermariello, Gerardo Chiaromonte e altri.
Cronaca, politica, sport, spettacoli (ho seguito come Marco Dani – anagramma di Mariconda – cinque festival della canzone di Napoli), esperienze condivise con carissimi amici e compagni. Li hanno ricordati e li ricordiamo in tanti. Alcuni non ci sono più, altri hanno testimoniato e testimoniano che l’Unità è stata una grande scuola professionale. Personalmente ho lasciato via Cervantes insieme con Ennio Simeone e il mitico Ceo –come si direbbe oggi- Gennaro Pinto per varare la redazione di Paese Sera a piazzetta Matilde Serao. Ma questa è un’altra storia. Però strettamente collegata. Primo numero in edicola il primo giugno 1976. Il giorno precedente lo trascorsi ad Afragola a documentarmi sull’ agguato a Gennaro Moccia, il primo omicidio della trentennale e sanguinosa faida con i Magliulo. Quello stesso giorno altri colleghi si occuparono della tragica morte di tre ragazze nell’incendio di una fabbrica di jeans a Casavatore.
La cronaca. Il Dna del giornalista.

Giuseppe Mariconda

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PER GLI ARTTICOLI PRECEDENTI : https://www.centoannipci.it/category/perr-una-storia-de-lunita-di-napoli/

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