Le Mail di Irene

Salve, sono stata iscritta alla FGCI e poi al PCI dal 1975 fino al 1990, all’inizio a Napoli e poi mi sono trasferita a Roma. Gli anni di Napoli sono stati fondamentali, andavo a scuola al Liceo Scientifico Statale Galileo Galilei ed ero iscritta alla Sezione Vomero Che Guevara di Via Luca Giordano e ancora adesso, quando passo davanti al palazzo, l’emozione è forte.
Ho solo una foto di quegli anni, siamo io, Maurizio Vinci e Rosario Mastrocola ad una manifestazione studentesca del Dicembre 1975, ho le tessere e alcune cose che ho scritto e che spiegano anche cosa è stato e continua a essere la mia esperienza nel PCI.
Se vi possono interessare ve le mando volentieri. Guardo sempre sul volto bel sito articoli e foto, in molte delle quali ritrovo compagni di allora, con alcuni per fortuna ci sentiamo e, quando possibile, ci vediamo ancora.
Grazie per l’attenzione e grazie per questa bella iniziativa…

Eccomi qua. Invio l’unica foto che ho e che non riesco a rendere più grande e poi tre cose che ho scritto in tempi diversi …Grazie ancora, non penso che sia una cosa da nostalgici, la maggior parte di noi vive con i piedi saldamente piantati per terra, però credo sia importante riconoscere e ricordare le proprie radici perché da loro è venuta fuori la persona che siamo diventati, almeno per me è così e lo è ancora oggi. C’è un modo di intendere la vita, la democrazia, la solidarietà, una visione del mondo e delle priorità che non può prescindere da quelle che furono le scelte di appartenenza di allora, alimentate dalla voglia sincera di cambiare il mondo. A volte faccio fatica a fare i conti con la mia età anagrafica e “la mia capa” che è rimasta quella di allora, gonna a fiori, maglione e zoccoli neri, giacca a vento comprata a Resina e l’energia dei vent’anni. E’ vero, il cuore non invecchia.

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Grazie cara Irene per queste tue mail. Ecco di seguito i tre contributi che ci hai inviato: ci è parso giusto pubblicarli tutti perchè tutti meritano di essere letti.

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LA “CHE GUEVARA”. LA MIA SEZIONE

La prima volta che ci misi piede lo feci con emozione e un senso di rispetto, sentendomi piccola e inadeguata: non ero mai entrata in una sezione di partito. Era la fine del 1975, anno in cui alle comunali il PCI aveva fatto la parte del leone. Era anche il primo anno in cui votarono i diciottenni, circostanza fortemente osteggiata e oggetto di boicottaggio dalle forze conservatrici. Anche l’iter del mio primo voto non fu facile  a causa di un errore su uno dei miei cognomi, croce della mia vita, per risolvere il quale dovetti minacciare l’impiegato ostile dicendogli che non sarei andata via dall’ufficio comunale preposto alla correzione finché non mi avessero dato il certificato corretto.  La tessera della FGCI l’avevo fatta a scuola, mi ero fatta convincere al grande passo dal mio “fidanzato storico” (all’epoca non sapevo che sarebbe passato ai posteri con questo appellativo) del quale mi ero invaghita durante un’assemblea, un classico anni ’70. La conservo ancora quella tessera, insieme a tutte le altre. Ha un bollino da 1.000 lire blu (la quota minima), è firmata dall’allora segretario della FGCI della sezione Antonio Oria e controfirmata da Massimo D’Alema, neo segretario nazionale.

La Sezione “Che Guevara” era in Via Luca Giordano, detta anche Sezione Vomero dal nome del quartiere. Era al primo piano di un vecchio palazzo nel cui androne c’era un negozio di dischi. Si era quasi al confine tra la “zona bene” vomerese e quella più popolare, Antignano, il mercato, il versante più vecchio. Una sorta di spartiacque.

Chissà cosa mi aspettavo di trovare! Erano tre stanze, se non ricordo male, le cui pareti erano ricoperte di manifesti di partito e di manifestazioni. C’era anche la foto di Berlinguer. La prima cosa che mi colpì fu il denso, penetrante odore di fumo che impregnava le pareti  e le suppellettili, poche a dire il vero: tavoli, sedie, qualche armadietto. Aveva un suo fascino, un alone impalpabile di serietà e radici, storia che aleggiava e quotidianità, mi diede un senso di solidità. E per me, sempre alla ricerca di punti fermi nel mare magnum della mia travagliata esistenza, un punto fermo lo fu davvero.

Noi eravamo i ragazzi, ma lì c’erano i Compagni grandi, gli operai, gli insegnanti, i lavoratori, persone per cui la politica e la lotta di classe erano pane quotidiano sul lavoro e in famiglia. La mia scelta di entrare a far parte attivamente di un’organizzazione politica nasceva dal desiderio di appartenere a qualcosa, a qualcosa di importante e di grande, di solido. Venivo da una famiglia dove di politica non si parlava: mio padre, militare, fisiologicamente uomo di destra;  mia madre potrei definirla affettuosamente “anarchica” nel senso che aveva idee tutte sue e penso non sia andata  a votare quasi mai in vita sua. Io, invece, volevo esserci, volevo unire la mia voce a quella di altri che la pensavano come me. Fu la prima scelta veramente mia, consapevole, determinata e la ricordo ancora come un passo importante.

Quelle stanze fumose non furono solo il luogo delle discussioni, degli “attivi” con i compagni “della federazione”, un termine usato per definire quelli che venivano in sezione a presiedere un dibattito e a portare la linea del partito all’interno di una realtà più modesta e di quartiere come poteva essere la nostra. C’è sempre stata una linea di confine tra noi e “loro”, una differenza che si può riassumere nel fatto che noi conoscevamo bene la realtà del territorio, le sue esigenze, le peculiarità specifiche delle persone; “loro” venivano a dirci cosa e come fare senza essere calati all’interno di questa realtà e ciò era, per molti di noi, inaccettabile. Da questo nascevano scontri verbali, alzate di voce, si vivacizzava il dibattito e poi ognuno restava della sua opinione.

No, non solo dibattiti, litigi, divergenze di vedute. Per un lungo periodo quella è stata la mia seconda casa, o meglio, la prima visto che una casa vera e propria io non l’avevo. Ogni pomeriggio eravamo lì anche solo per stare insieme, per parlare, suonare la chitarra, fare insieme “merenda”. Di fronte alla sezione c’era, e c’è ancora, Flor do Cafè, una sorta di supermercato di caffè, dolciumi, cioccolata e “porcate” varie. A una certa ora mettevamo insieme qualche soldo, un gruppetto scendeva a comprare panini in busta e cioccolata, quella più economica, poi tornati di sopra davano a me il tutto, visto che tacitamente ero stata eletta un po’ la “mamma” del gruppo, sebbene loro coetanea, e io, equamente, riempivo e distribuivo i panini. Sento ancora il sapore di quel pane morbido e della cioccolata scadente che riempiva la bocca e il cuore in quei lunghi pomeriggi. Eravamo tanti  e diversi e la cosa bella era proprio questa, questa amalgama variopinta piena di vita. Li ricordo tutti, da Letizia bella e silenziosa con il suo inseparabile cane a Ettore, gigante buono che faceva taekwondo a Mimmo che suonava la chitarra e al quale abbiamo fatto credere per anni che io ero la zia di Guglielmo, a Massimo, giovanissimo e petulante e poi Maria Rita, Caterina, Marisa con le quali si discuteva di donne e di politica, di maschi e di drammi giovanili. La lista potrebbe continuare con Alberto, Maurizio, Rosario e poi Salvatore, Patrizia, Marina…volti, voci, ricordi.

In quegli anni e in quel luogo sono passati in tanti attraverso la mia vita. Voci, volti, nomi che ho ancora ben presenti. Lì sono nate amicizie che il tempo ha reso inossidabili, si sono dipanate storie, drammi, episodi pittoreschi, esilaranti, segreti più o meno inconfessabili, come possono esserlo solo quelli di giovani incoscienti innamorati. In quella sezione, sul tavolo della sala riunioni, io ci ho dormito due notti, all’insaputa di tutti, quando mia madre mi cacciò di casa. La prima notte insieme a Rosario che aveva le chiavi, in due sacchi a pelo, battendo i denti dal freddo. La seconda da sola, lui non poteva dormire due notti di seguito fuori casa, altrimenti quella furia di sua madre, forse la donna più spaventosa che ho mai conosciuto, spaventosa per cattiveria gratuita e totale assenza di apertura mentale, lo avrebbe ridotto all’impotenza, in tutti i sensi. La notte che passai da sola fu insonne e agitata, con i fantasmi dei fascisti che mi tenevano sveglia, ma in cuor mio il sottile piacere di fare una cosa proibita e segreta e anche coraggiosa, in fondo.

Dalla sezione partivamo per fare volantinaggio, vendere L’Unità, Rinascita, Nuova Generazione, la stampa di partito impegnata e un po’ pallosa. Oppure per attacchinare, verbo che riassumeva l’opera di affissione dei manifesti, soprattutto in periodo elettorale. Tutte attività svolte rigorosamente gratis, al contrario dei giovani DC che, pare, prendessero dal partito 200 lire a manifesto. Ma noi eravamo superiori! Noi avevamo un ideale. E questo ideale spesso si scontrava, anche fisicamente, con chi non la pensava come noi.

Il quartiere Vomero era sede di una robusta sezione del Movimento Sociale Italiano, esattamente di fronte a casa del mio ragazzo, il quale, conosciutissimo, aveva imparato a scavalcare il cancelletto esterno senza aprirlo per non perdere tempo. Gli scontri con loro e, in seguito, negli anni a venire, con l’Autonomia Operaia, furono spesso molto violenti, ma facevano parte di quel senso di appartenenza netto e chiaro che ai giorni nostri pochi ricordano. Mi sono trovata spesso in mezzo alle mazzate, anche perché spesso ero l’unica donna, come lo ero quando andavamo a giocare a biliardo. La mia vita un po’ randagia me lo permetteva ed io ne ero molto fiera e non mi tiravo indietro anche se c’era chi evitava che mi mettessi nei guai buttandomi nella mischia. Uno dei compagni più giovani, ma più in carne, Aldo, che era a scuola con me, si autoproclamò mia guardia del corpo. Lui era nella FGCI, il fratello Gigi in Avanguardia Operaia.

Furono anni bellissimi e terribili, indimenticabili nelle loro piccole e grandi cose. Per la sezione passava davvero chiunque. C’era un ragazzino, avrà avuto 11 anni, Sergio detto Sergiolino, figlio di una contrabbandiera della zona che vendeva sigarette per strada, il padre credo non lo abbia mai visto, i fratelli maggiori vivacchiavano nel sottobosco di zona. Si era affezionato a me e a Rosario e ogni volta che ci incontrava, quando non si presentava in sezione, pretendeva di offrirci qualcosa al bar. Noi cercavamo di declinare, ma lui insisteva e minacciava di offendersi. Una sera ero in auto con Rosario, ferma sotto la casa dell’amica di mia madre dove avevo una stanza in affitto. Stavamo litigando e io, tanto per cambiare, piangevo. Sentiamo bussare al finestrino. Era Sergiolino che apostrofò Rosario con aria minacciosa: “Tu nun li ha fa’ chiagner a  chest!’ “ (traduzione: Tu non devi farla piangere!). Eravamo sbigottiti e inteneriti allo stesso tempo. Mi sono chiesta spesso che fine ha fatto Sergio, sperando che non si sia perso in quel dedalo intricato di malavita che affligge da sempre la città di Napoli.

La sezione era il nodo da cui si dipartivano tante attività e che diventava cruciale nei momenti elettorali. L’anno successivo, alle elezioni politiche del 1976, feci per la prima volta in vita mia la scrutatrice. Ero eccitatissima. Ci ritrovammo nello stesso seggio io e un altro compagno della sezione, Alberto. Sapevamo che ci sarebbe stato da tenere gli occhi aperti: dopo il clamoroso risultato alle Amministrative dell’anno prima, il PCI sarebbe stato marcato stretto da tutti ed erano possibili brogli e incidenti di percorso. Il sorpasso sembrava per la prima volta vicino e possibile. Alberto e io non mollammo un attimo, io non tornai  a casa neanche per mangiare e al momento dello spoglio eravamo al fianco del Presidente per controllare da vicino tutte le schede. Si capì ben presto che il PCI avrebbe ottenuto un grosso risultato, che si rivelò di proporzioni storiche: il risultato del 34,40% avrebbe fatto tremare la politica italiana, in barba agli appelli e alle manovre preventive della DC e dei partiti di destra, e anche il presidente del seggio, che aveva mantenuto un basso profilo fino a quel momento, gettò la maschera e si rivelò uno di noi. Eravamo euforici,  prendemmo alla lettera le parole del presidente che ci aveva detto: “Dal seggio potete portare via tutto tranne le matite copiative”, così facemmo tutti incetta di penne, candele, colla, spago e quant’altro, al punto che al momento di confezionare i plichi con le schede non si trovava più lo spago che dovetti, non senza imbarazzo, tirare fuori dalla mia borsa. All’uscita dal seggio, però, ci aspettava un’amara sorpresa: alla macchina del presidente, che doveva andare  a consegnare i plichi in Comune, avevano tagliato le gomme. Erano stati sicuramente i fascisti. Alberto rimase con il presidente, cercando un’altra auto per raggiungere il Comune, io corsi, letteralmente, in sezione a denunciare il fatto e a cercare aiuto. Non mi presero in alcuna considerazione, tutti euforici e urlanti, erano catalizzati da risultati e percentuali, intorno al televisore che strombazzava cifre a tutto volume. Dopo aver alzato la voce, strattonato compagni e spiegato più volte la situazione, un paio di loro si allungarono per andare a vedere quale sorte era toccata ad Alberto e al presidente che, per fortuna, raggiunsero il Comune con mezzi di fortuna.

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IL PCI. LA MIA CASA

Il PCI è stato la mia casa per molti anni e chi mi conosce sa che è stato davvero la mia casa, un luogo anche fisico oltre che ideale, dove mi sono formata sulle basi che ancora oggi sostengono la persona che sono diventata. Il mio tortuoso cammino personale, conseguenza di scelte non mie ma che io ho dovuto affrontare e risolvere, mi ha portata negli anni della giovinezza, quelli in cui ci si costruisce un’identità, a confrontarmi con qualcosa di totalmente nuovo e diverso che mai aveva attraversato la mia vita. Tra le mura della mia sezione, con le compagne ed i compagni, ho condiviso tutto, il famoso problema del personale e politico, io non l’ho mai avuto perché gli accadimenti della mia esistenza erano lì, davanti a tutti. Sono stati anni di costruzione, di studio, ma non inteso nel senso letterale del termine, solo sui libri. La parte di apprendimento maggiore avveniva tra di noi e tra la gente, tra le persone che avvicinavamo per capirne i bisogni, le istanze, partendo dalla nostra realtà territoriale, negli incontri e negli scontri che costellavano i nostri giorni e le nostre notti. La mia naturale e indomabile curiosità verso il genere umano e la vita in ogni suo aspetto, hanno fatto il resto. Sono stati anni a tratti difficili e bui, dove dovevi sapere bene da parte stare, dove però nulla era scontato e la discussione, anche quella a urli, era uno strumento necessario per capire e scegliere, dove nulla, almeno per quanto mi riguarda, è stato assorbito passivamente senza spirito critico. Ormai rido quando sento parlare degli stereotipi sull’indottrinamento coatto, ai tempi mi incazzavo fortemente.

Sono stata nel PCI dal 1976 al 1990, ho ancora le tessere con i bollini incollati e le firme dei segretari di sezione e di partito perché amo la sensazione, quando riprendo in mano un oggetto, un simbolo del passato, di risentire quell’atmosfera, di rivedere volti, riascoltare voci e ripensare ad aneddoti drammatici o esilaranti che si riaffacciano sotto i capelli grigi. Negli anni ho spesso analizzato la parabola di un partito che è stato così importante nella vita dell’intero Paese e in quelle di chi ha lavorato al suo interno. Non sono un’analista politica, parlo per quello che ho visto e sentito in prima persona e per l’idea che mi sono fatta lungo il cammino. Nulla può durare per sempre nello stesso modo, i percorsi sono fatti di mutamenti, adeguamenti alla realtà che cambia, devono rispecchiare un presente pur senza dimenticare il passato perché, come per ogni cosa, non si può prescindere dalla propria storia e ciò vale per il singolo individuo come per i partiti. Temo che per il PCI abbiano contribuito una serie di fattori. Il crollo del muro di Berlino è stato catartico, ma forse ha ingenerato una pericolosa fretta all’adeguamento storico in un momento in cui la direzione del partito non era abbastanza solida e ancora divisa tra “vecchi e nuovi”, divisione gestita malissimo. La discussione in atto, la confusione e, quella sì, una rottamazione affrettata di uomini e di idee, hanno generato uno scollamento con “la base” che da sempre è stata la forza del PCI, che lo ha sostenuto e portato avanti perché lo sentiva vicino ai propri bisogni, attento anche a chi era distante anni luce dalla politica e proprio per questo più esposto all’indifferenza. Quel nostro andare “casa per casa”, con la scusa di vendere l’Unità, manteneva un rapporto umano e di fiducia, ci dava il modo di tastare il polso al quartiere e, quartiere dopo quartiere, alla città potendo dare un quadro veritiero delle necessità e delle criticità, dando una mano, anche individualmente, a chi aveva realmente bisogno. Invece si perse questa dimensione che può sembrare un dettaglio, ma che alla lunga ha fatto la differenza. La dirigenza del partito, tra nuovi nomi, nuovi simboli e discussioni astratte si è allontanata da quella base che, allora più che mai, aveva bisogno di risposte e spunti di dibattito collettivi, non definizioni preconfezionate. Per me questo è stato l’inizio della fine, ma è solo la mia opinione, quella di una compagna di base che non ha mai aspirato ad essere altro e che ha continuato per la sua strada continuando ad usare la propria testa e cercando di allargare il proprio orizzonte, senza mai dimenticare la grande lezione di vita di quegli anni, bellissimi e tremendi nella loro complessità, anni in cui ho imparato come si fa a crescere. 17 Gennaio 2021

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MA PRIMA LO E’ STATA LA FGCI

…veramente sono stata iscritta prima alla FGCI, al circolo della gloriosa sezione “CHE GUEVARA” di Via Luca Giordano a Napoli. La mia prima tessera FGCI datata 1975 me la fece Maurizio Vinci, allora segretario di circolo. Era per me un periodo intenso e particolare e la sezione diventò la mia casa, nel senso più letterale della parola! Amici, amori, passioni, discussioni, incazzature. E poi il volantinaggio, l’attacchinaggio dove ci fronteggiavamo con i fascisti del quartiere, le campagne elettorali, gli attivi, le manifestazioni. Per la mia generazione è stato un modo per crescere provando un senso di appartenenza che i nostri figli ignorano. La condivisione di fatti che facevano la storia del nostro Paese, di cui al momento ignoravamo la portata, ci faceva sentire partecipi di un presente che volevamo, dovevamo cambiare.

Venivo da una famiglia borghese, padre militare, madre casalinga, a casa zero politica. Mi sono costruita la mia identità politica sui banchi di scuola e in sezione, faticosamente, facendo domande e cercando risposte, invidiando per anni chi aveva un padre operaio o sindacalista, chi viveva la politica, la respirava. In quegli anni ho maturato la convinzione che la politica fa parte della nostra vita inevitabilmente, il solo avere un’opinione ed esprimerla è politica ed è giusto portare avanti le proprie idee a qualunque costo. A distanza di tanti anni ancora mi incazzo quando sento affermazioni qualunquistiche del tipo: ”Io non mi occupo di politica”. Sono stati anni intensi, indimenticabili di cui non è semplice parlare in due parole per la complessità delle emozioni che ancora mi suscitano. Sono stati anni dai quali è stato difficile staccarsi, proiettati in una nuova realtà dove tanti di noi si sono sentiti, e forse ancora si sentono, orfani o comunque non hanno trovato riscontro in un nuovo assetto che sentivano estraneo. Non è facile fare i conti con il tempo, non è semplice accettare i cambiamenti. Quello che posso dire è che se oggi sono quella che sono, una donna che ha affrontato e affronta le sfide della vita senza piegarsi, senza fare sconti, senza sottrarsi alle responsabilità lo devo anche a quegli anni, a quella scelta, forse la prima vera scelta interamente mia che ancora mi porto dentro. I compagni di allora li ricordo tutti, molti li sento e li vedo ancora, alcuni hanno subito strane metamorfosi ideologiche, altri sono rimasti uguali, ma quando ripenso a quegli anni l’immagine che prepotentemente prende la scena è quella di una stanza della sezione Che Guevara dove noi, intorno all’unico che sapeva suonare la chitarra, cantiamo “La locomotiva” di Francesco Guccini. E vi garantisco che un ricordo del genere non è poco!

27 Novembre 2011

 

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6 commenti

  1. sono il citato Alberto, mi sono decisamente emozionato nel leggere queste poche parole che racchiudono un’infinità di ricordi e di emozioni vissute in quegli anni. Grazie Irene

    1. Caro Alberto che bei ricordi abbiamo!

  2. Bellissimi questi ricordi che ci fanno rivivere un’atmosfera, sentimenti, scelte, lo stare insieme per …
    Grazie, compagna Irene!

  3. Io sono entrato in FGCI a Napoli nel 1971 e sono stato attivo nel PCI fino al 1983 . Poi sono emigrato e poi entrato nel PDS nel 1990.

  4. Bei tempi, vi ricordo,io dal centro storico, bellissimo periodo della nostra vita.Ettore è Angelo,fini a mettere molotov……
    Grazie sinceramente
    Pacifico

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