di Massimiliano Amato
È possibile trarre la Scissione di Livorno, di cui tra poco più di un mese ricorrerà il centenario, dal binario unico dell’infinita discussione – che ha attraversato in pratica due terzi del Novecento, diciamo dal fatale 1921 all’altrettanto fatale 1989 – su chi avesse ragione tra Turati e Gramsci? Si può, cioè, cercare di ricostruire l’evento più traumatico della storia della sinistra italiana strappandolo alle letture ideologiche che continuano a rincorrersi e sovrapporsi, testardamente eludendo il problema principale che quella dolorosa separazione generò: vale a dire la vittoria della reazione, sfociata 21 mesi dopo nel golpe sabaudo-fascista? Certo, la china su cui si mette Ezio Mauro con il suo “La dannazione. 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo” (Feltrinelli editore, 190 pagine, euro 18) è di quelle molto pericolose. Perché lambisce la cosiddetta “storia controfattuale” che gli storici di professione rifuggono come la peste. Non è assolutamente dimostrabile, infatti, che senza la Scissione di Livorno i socialisti uniti sarebbero riusciti ad evitare la presa del potere di Mussolini. E’ altamente probabile, anzi, che considerate le circostanze che la determinarono (in primis il ruolo svolto da Vittorio Emanuele III e l’inarrestabile agonia dello Stato liberale), a Turati e Gramsci non sarebbe stato concesso – per usare una metafora calcistica – di toccare palla. Anche se avessero continuato a giocare nella stessa squadra. E tuttavia la tesi centrale del libro – che entra nella carne viva di una questione cruciale della storia politica italiana del Novecento: l’impossibilità, oggi certificata e pressoché definitiva, per la sinistra italiana di essere forza egemone di governo come lo sono stati, tanto per dire, i laburisti inglesi, i socialdemocratici tedeschi e svedesi, nonché i socialisti francesi, merita di essere discussa e approfondita. Non foss’altro perché la percezione che quella spaccatura avrebbe fatto solo il gioco del “nemico” era avvertita anche da dirigenti socialisti più in sintonia con Mosca di quanto (cioè zero) non lo fosse Turati: “Ci divoreremo tra di noi e la borghesia finità per avere qualche poco di pace”, aveva scritto Giacinto Menotti Serrati nell’ottobre del 1920. Con un’operazione storiografica non priva di rischi (ma a cosa serve ricostruire gli avvenimenti del passato se non a fornire gli strumenti per leggere il presente?) Mauro fissa il punto di inizio di questa impotenza lunga un secolo in tutto ciò che avvenne al “Goldoni” di Livorno tra il 15 e il 21 gennaio del 1921.

Quando un partito in larghissima maggioranza controllato non dal vecchio leone Filippo Turati, che l’aveva fondato 29 anni prima a Genova federando un universo composito e magmatico di movimenti di lotta e liberazione umana, ma dai massimalisti di Serrati e Lazzari (che infatti alla fine avrebbero vinto il congresso) saltò in aria per il diktat – ribadito alla tribuna con un tono e un linguaggio di inusitata violenza dal bulgaro Kristo Kobakcev – del Komintern esclusivamente funzionale all’esigenza della Russia dei Soviet di forzare la camicia di forza dell’isolamento internazionale che le altre potenze imperialistiche europee le avevano cucito addosso. I socialisti italiani non avevano votato i crediti di guerra: già questo particolare (insieme a molti altri, per la verità) ne facevano un unicum nel panorama del socialismo europeo del tempo. E un caso esemplare il Psi sarebbe rimasto per gran parte della sua storia, per moltissimi anni ancora dopo la guerra e la caduta del fascismo. Insomma, la durezza estrema con cui Kobakcev ripeté l’ultimatum dei bolscevichi, sintetizzato dai famosi 21 punti (che partivano dalla questione principale e dirimente del cambio del nome del partito, da socialista a comunista), lo sprezzo che Bordiga gettò addosso al congresso (“Ce ne andiamo, compagni, e porteremo con noi anche il nobile passato del socialismo italiano”), la raffinata ma durissima catilinaria antiriformista pronunciata alla tribuna dal futuro padre della Repubblica Terracini (che pochi anni prima di morire, nel 1982, avrebbe solennemente affermato ai microfoni della Rai che “nel ’21 aveva ragione Turati”, seguito subito dopo da un’altra fondatrice del Pcd’I, Camilla Ravera), non sono esagerati riletti oggi. Lo erano già allora.


Giustamente, uno dei “fuochi” della narrazione di Mauro, che con questo libro si conferma uno dei più lucidi e efficaci public historiacian in circolazione, è la rivisitazione accorata dell’intimo tormento di Antonio Gramsci, l’intellettuale che nel ’17 ha analizzato criticamente sull’Avanti! la presa del Palazzo d’Inverno (“Una rivoluzione contro il Capitale”), e che dal ‘19 in poi prepara lo strappo con fiammeggianti editoriali sull’Ordine Nuovo, il giornale nato a Torino da una costola dell’Avanti!, fondato con Angelo Tasca e Palmiro Togliatti. Mentre quest’ultimo addirittura rimane a Torino, ufficialmente per garantire l’uscita del quotidiano, a Livorno, per tutta la durata del congresso, Gramsci, che in una lettera a Togliatti da Mosca dell’agosto del 1923 arriverà a scrivere che “La scissione di Livorno (il distacco della maggioranza del proletariato italiano dalla Internazionale comunista) è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione”, se ne sta acquattato nell’ombra di un palco del Goldoni. Non prende parte alla discussione pur avendola orientata per un biennio. Il clima acceso dell’assise sembra quasi intimorirlo. Sfugge al confronto con il suo antagonista Turati, l’avversario che Lenin ha indicato alla fazione comunista, il rinnegato da cacciare dal partito insieme a tutta la corrente dei gradualisti, rei di aver bocciato senza appello la soluzione rivoluzionaria. In ogni caso non è fatto per fini ragionatori il rodeo impazzito in cui di colpo si trasforma il XVII congresso del Partito Socialista Italiano, con Serrati che provoca Bombacci con un temperino e il futuro repubblichino di Salò, finito poi impiccato a testa in giù a piazzale Loreto insieme a Mussolini, che dal suo palco estrae una rivoltella mostrandola alla platea dei delegati. Ma, pur senza salire alla tribuna degli oratori, Gramsci “è” Livorno, così come Torino, la città della sua educazione ideologica e politica, con il suo proletariato industriale è la principale “incubatrice” della Scissione. Il capitolo che il piemontese Mauro dedica al racconto dell’ex capitale sabauda durante il biennio rosso è una specie di libro nel libro, perché contiene un’analisi non convenzionale dei fattori per i quali, tra il ’19 e il ’21, in Italia – o almeno nella parte più avanzata di essa – il mito della rivoluzione scardinò tutte le categorie, morali, politiche, ideologiche, civili del compromesso moderato sul quale si era retta l’Italia uscita dal Risorgimento. Un compromesso al quale, contrariamente a quello che sosterrà la vulgata per quasi un secolo, Turati – un marxista ottocentesco, neopositivista, quindi con tutti i limiti di quella impostazione – non si era mai acconciato veramente. Il senso vero del suo “gradualismo” era rintracciabile direttamente nel Capitale, non certo nel revisionismo bernsteiniano, né negli altri socialismi utopici di fine Ottocento. Ancorché non dichiarato espressamente dall’autore è, questo, l’ultimo, fondamentale “fuoco” del libro di Mauro. Quello che aiuta a spiegare il concetto di “dannazione” riportato nel titolo.


Turati non era un riformista. Non lo era almeno nell’accezione negativa che il leninismo dava al termine. La Scissione di Livorno si produce su una questione di metodo che sottende un gigantesco problema di merito. La divaricazione rivoluzione vs riforme non riguarda la modalità di conquista del Palazzo da parte del proletariato, o almeno non solo quella, ma il tipo di società socialista da costruire. Erano visioni inconciliabili: burocratica, statolatrica e centralizzante, come poi sarebbe stata nella definitiva strutturazione staliniana, da una parte (e Gramsci, nella seconda parte della sua vita, se ne sarebbe gradualmente ma fermamente allontanato), democratica, aperta e pluralista dall’altra. Dal ‘44 in poi, pur imprigionato per molti anni nella rete della “doppia fedeltà”, il Pci togliattiano – come argomentava Emanuele Macaluso in un saggio di qualche anno fa – assumeva, senza dichiararlo, il gradualismo turatiano. Ma nella settimana più tragica della storia della sinistra italiana quella piattaforma fu criminalizzata, vilipesa, mortificata. Da lì, da quella criminalizzazione, da quel vilipendio, da quella mortificazione, Mauro fa discendere la “sfortuna” di un Paese “dove la sinistra non può chiamarsi col suo nome”. Ha ragione? Ha torto? La discussione è aperta.

Massimiliano Amato

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