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Quel cruciale 1980

di Marcella Ciarnelli

L’unica volta che ho avuto un dubbio serio sulla mia intenzione di voler fare la giornalista, un sogno da sempre, forte della voglia con cui sono nata di osservare e raccontare e anche giudicare eventi e persone, è stato in una tiepida sera di primavera forse del 1978 o giù di lì. Ma l’anno ha poca importanza. Stavo tornando a casa dopo una giornata di lavoro nella redazione dell’Unità di Napoli quando davanti al portone del Municipio, che è a pochi metri da via Cervantes, ci fu un regolamento di conti della camorra con relativo morto. Non so chi scappò prima nell’androne di Palazzo San Giacomo, se io o il vigile urbano di guardia che fu rapidissimo a sbarrare l’accesso facendo quasi volare sui cardini le pesantissime ante. In quell’atrio c’era un telefono a gettoni. Allora i telefonini erano fantascienza. Chiamai in redazione. Mi rispose il capocronista. “Rocco hanno ammazzato un uomo. Qui ci vuole un giornalista”. “E tu?”. “Io fuori non ci vado”. Arrivò in un lampo Vito Faenza già bravissimo cronista appassionato di nera e grande conoscitore dei meccanismi di una malavita organizzata che non si muoveva mai a caso. Del vigile si erano perse le tracce.

Poi, come si sa, lo choc l’ho superato e me la sono vista con più coraggio e determinazione con personaggi potenti, con i grandi disastri, con i dolori di un singolo o di una collettività. Ho superato la paura dei morti e degli eventi tragici ma anche la soggezione nei confronti di leader o presunti tali, dei potenti. Ma ogni volta che passo da quella piazza ancora me la ricordo quella sera.

In redazione ci ero arrivata dopo l’esperienza nell’ufficio stampa della Festa nazionale dell’Unità che si svolse a Napoli nel settembre del 1976, negli spazi ritrovati della Mostra d’Oltremare e poi in gran parte di nuovo abbandonati. La redazione era sotto un grande tendone bianco che ospitava grandi inviati e giovani pronti ad imparare. A conoscersi. A stare insieme in un’alchimia imprevista e preziosa che negli anni si è confermata irrepetibile. Che dura ancora. E la considerazione vale anche per quelli che non credono lo sia.

Fu la festa più bella di tutte le feste. In una città in cui si respirava l’ entusiastica atmosfera di rinnovamento che solo un anno prima aveva portato alla guida della città un sindaco comunista, Maurizio Valenzi. Era la Napoli consapevole che gli esami non finiscono mai come aveva appena scritto Eduardo, pronta a danzare sulle note della Gatta Cenerentola che Roberto De Simone ci aveva appena regalata. A ridere con La Smorfia di Troisi, Decaro, Arena.

Il mio fu un impegno affrontato con la consapevolezza che quella fosse l’ultima occasione per riuscire a raggiungere l’obbiettivo di lavorare in un giornale, meglio nel giornale di quello che era il mio partito del cuore e della mente, il Pci. Ero meno giovane di quelli che sarebbero stati i miei nuovi compagni di avventura, ma non me ne hanno mai fatto avvertire il peso. Eravamo tutti pronti ad imparare quello che Eleonora Puntillo, maestra di vita e di giornalismo, si impegnò ad insegnarci con affettuosa puntigliosità. I nostri pezzi sottolineati in rosso ad attenderci la mattina sulla nostra scrivania sono un ricordo pari a quello degli esami della maturità. Solo che quello era un esame quotidiano. Con lei il caro Sergio Gallo che con Nora passò poi a Paese Sera consentendo lo sblocco delle assunzioni. C’erano Franco De Arcangelis e Giulio Formato un mattinale in carne ed ossa, il filo diretto con la Questura. Felice Piemontese stava per andare alla Rai. Mi ero persa per un pelo Ennio Simeone e Geppino Mariconda, passati ad altri impegni. Se la prova non fosse andata bene la mia prospettiva per il futuro sarebbe stata l’insegnamento per cui, comunque, avevo continuato a studiare. Con l’ultimo corso tenuto da Francesco Barbagallo e Maria Donzelli brillantemente superato. Ma del “comunque” non ci fu bisogno.

L’occasione del lavoro volontario che mi offrì Rocco di Blasi la affrontai con entusiasmo, disponibilità, voglia di imparare a raccontare gli esseri umani e il loro mondo. E mi ritrovai così nello stanzone di via Cervantes con i ragazzi nuovi e con le certezze di quella redazione di cui faceva già parte Mario Riccio, ancora e sempre scugnizzo di Cariati, grande conoscitore della città, prima fattorino, poi fotografo e giornalista. Un affetto stabile. C’era la struttura di supporto e organizzativa, Franco Feliciotti, Claudio Massari, Renato alla telescrivente che una sera mi corresse un errore scappato dal tasto, non dirò quale. Ogni volta che scrivo quella parola mi ricordo la sua cortese notazione. E lo ringrazio. Dopo un po’ arrivò in segreteria di redazione Rosaria Paolillo. Un’amica.

Il mio primo pezzo in assoluto fu la cronaca del gran casino al Provveditorato che gli insegnanti dovevano affrontare per controllare le graduatorie. Un’emozione vederlo pubblicato. Se non fosse per le tecnologie con cui ora si cerca di governare l’evento annuale il racconto potrebbe andare bene anche adesso. Il casino permane. Politica e cronaca bianca, cronaca nera molta, cronaca rosa ovviamente poca. Facevamo quattro pagine ogni giorno e otto la domenica. Senza agenzie. Informandoci sul campo, leggendo tutto quello che tra inviti e comunicati ci arrivava, usando molto il telefono per le verifiche. Quando restava un piccolo spazio tutto serviva. La notizia col pallino era un incubo e una soluzione. E’ stata una scuola dura che però ancora adesso, nell’epoca del copia e incolla, in cui i giornali si fanno per lo più seduti in redazione ad inseguire le martellanti edizioni online e le tv che bruciano tutto, rivendico come essere l’unico modo di fare giornalismo. Non è nostalgia. E’ una certezza. Ed essere riuscita a vivere un’esperienza così intensa è stata la vera scommessa vinta della mia vita. In campo lavorativo certamente.

Dunque in redazione mi ritrovai con Marco Demarco già con un destino da direttore, Federico Geremicca che resterà per sempre nel mio cuore, al di là delle sue grandi capacità che ha espresso in tante testate e ora a La Stampa, il figlio di Andrea. Antonio Polito, una delle grandi firma del Corriere, il già citato Vito Faenza. Per un po’ Valeria Alinovi e poi Franco Di Mare, ora direttore della Terza rete Rai, vero erede di Angelo Guglielmi, che mandava perfette corrispondenze dal suo quartiere, Fuorigrotta, e fu chiamato in redazione. Procolo Mirabella passato alla Rai per cui il sindacato, come per Luigi Vicinanza che ora è un grande in un grande gruppo come quello Gedi, non aveva segreti. Bisogna aggiungere a questo che non è uno sterile elenco ma sono parti di cuore messe tutte insieme, Maddalena Tulanti, combattente sul campo e politica raffinata che aveva avuto il coraggio di parlare da giovane dirigente ad una piazza del Plebiscito gremita prima che prendesse la parola Enrico Berlinguer. Maddalena dopo qualche anno ci raccontò Mosca, la Russia e la Cecenia per poi iniziare con il Corriere la grande avventura barese. Una sorella. E poi Vittorio Ragone, che scriveva corrispondenze da Castellamare, che poi mi ritrovai a Roma alla sezione Interni che fui chiamata a dirigere anni dopo e con cui ci divertimmo a rompere gli schemi di un giornale bisognoso di novità. Ma così andiamo troppo avanti.

All’Unità di Napoli siamo stati tutti amici. Non è l’ottimismo di chi guarda al passato con un relativo futuro davanti e si attacca ad esso. Lo idealizza. Io ci credo davvero. Con onestà intellettuale e cuore. Le stanze di via Cervantes sono state casa e famiglia. Luogo di confronto, di scontro e di colossali mangiate nei giorni di festa quando comunque ci toccava lavorare e Vito portava le mozzarelle da Aversa. Quel clima lo percepivano anche i politici della città, Antonio Bassolino in testa allora segretario regionale, gli intellettuali come Luigi Compagnone e Paolo Ricci con cui divisi tante ore anche di lavoro. Lo percepivano anche i grandi inviati dei grandi giornali che ad ogni evento arrivavano per farsi raccontare, aiutare, ed anche per dividere una pizza. Ci sfruttavano? Forse. Ma a noi piaceva così. Roberto Ciuni ebbe per un anno un posto fisso in reazione. Si preparava a diventare direttore del Mattino e preferì conoscere e studiare la città da noi, in quella stanza dove di scherzava, ci si confrontava, ci si voleva bene. Si vedeva spesso Liliana Madeo. Arrivò anche Vittorio Sermonti colto e indiscusso dantista. C’erano i nostri colleghi napoletani Peppe D’Avanzo che ci sorprese prima con le sue capacità e poi con una morte ingiusta, Enzo D’Errico che ora dirige il Corriere del Mezzogiorno, Massimo Milone ovvero La Stampa, durante uno stop burocratico per poi riprendere quelle che sono state brillanti carriere.

Chi pensasse che la redazione locale di un giornale, per lo più comunista, fosse destinata ad occuparsi solo di operai e questioni politica, sociale e disastri, si sbaglia di grosso. C’era voglia di nuovo, curiosità. A me è capitato, era l’ottobre del 1980 di seguire la visita a Napoli della Regina Elisabetta. Era ottobre ed Elisabetta se la spassò tra giri della città e l’omaggio a Pompei. Al seguito ravvicinato fummo ammessi Paolo Guzzanti della Stampa, Gaetano Giordano del Mattino, il giornale della città ed io che rappresentavo il quotidiano del partito del sindaco comunista da poco eletto. Un terzetto indimenticabile che il massimo lo raggiunse quando ci fecero salire a bordo del Britannia, lo yatch reale che all’occorrenza poteva trasformarsi in nave ospedale. Una visita accurata che cercammo di prolungare nascondendoci alle guardie che dovettero farci scendere a terra, non dico con la forza ma con fermezza, prima del gran ricevimento di gala offerto dalla regina. Ci andò male. Per la collottola fummo riportati sul molo dalle guardie reali. Ci avevamo già provato a Pompei ma sulla Rolls Royce reale per un attimo ci entrammo . Allora era direttore Alfredo Reichlin, capo degli Esteri era Renzo Foa. Il racconto finì in prima pagina.



Quel 1980 fu fondamentale. In giugno nel porto di Napoli arrivò a bordo di una nave militare la coda dell’aereo abbattuto nei cieli di di Ustica. Uno dei grandi misteri italiani. Con Luca Villoresi, collega caro di Repubblica, arrivammo per tempo al porto e sapemmo che la nave avrebbe attraccato ad un paio di chilometri da dove stavamo noi. “Ce la fai” mi chiese Luca che era lungo lungo e aveva una falcata proporzionale. “Certo” risposi e arrivai prima nonostante il mezzo metro di differenza in altezza. La velocità della volontà.

E poi ci fu il terremoto. Domenica 23 novembre. Ore 19,34. Magnitudo 6,9. In redazione c’eravamo Gigi Vicinanza, Maddalena Tulanti ed io. Una stanca domenica di lavoro festivo e poi l’apocalisse che cambiò le nostre vite. I primi giorni sul campo e poi mi toccò di seguire per più di un anno il commissario straordinario Giuseppe Zamberletti che in sintonia con il sindaco Valenzi prese in mano una situazione drammatica le cui conseguenze ancora si pagano in alcune parti della regione. Il primo contatto costante con una istituzione. Giunta a compimento con gli anni da quirinalista al seguito del presidente Giorgio Napolitano.

Novembre 1980. Studio di Maurizio Valenzi. Enrico Berlinguer, Pio La Torre e Marcella Ciarnelli



Al giornale già non andavano bene le cose. Arrivò Emanuele Macaluso, il miglior direttore che abbia avuto dei quindici con cui ho lavorato, e si cominciò a parlare di ristrutturazione e di trasferimenti. Mi offrii per motivi personali e professionali di andare a Roma per alleggerire la redazione di Napoli che comunque dopo pochi anni fu chiusa. Il portone di via dei Taurini l’ho varcato da interna per la prima volta il 10 dicembre del 1982. Ma questa sì che è tutta un’altra storia.

Marcella Ciarnelli

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