Siamo nei Profili, perchè qui parliamo di Eduardo De Filippo. Certo anche dell’Eduardo grande autore teatrale e grande attore ma soprattutto dell’Eduardo intellettuale impegnato per la giustizia sociale.

In questo lavoro di raccolta di materiali, di testimonianze, di documenti, di immagini sulla storia del PCI e della Sinistra ci è captato di incontrarlo tante volte : proveremo a dare conto di questo, confidando che anche da voi che ci leggerete giungeranno altri ricordi, materiali, suggestioni.

Poche settimane fa la RAI con un’opera meritoria ha mandato in onda un bellissimo documentario a lui dedicato e realizzato con il protagonismo diretto dei figli di Luca De Filippo, troppo presto strappato agli affetti della famiglia , di Carolina Rosi e di tutti i familiari.

E allora cominciamo questo ‘viaggio’ intorno ad Eduardo proprio da dove si chiude anche il documentario : dalla morte di Eduardo.

E’ il 31 ottobre 1984.

E il 4 novembre l’Unità, Direttore quell’Emanuele Macaluso che abbiamo appena salutato, esce con questa pagina: scrive su Eduardo quello che è un vero e proprio saggio addirittura Pietro Ingrao. Grazie all’aiuto di Gilda Mangiacapra, lo trovate anche ‘ribattuto’ per renderlo agevolmente leggibile.

RIPENSANDO EDUARDO

di Pietro Ingrao

Domenica 4 novembre 1984 – l’Unità

Ho cominciato a vedere Eduardo negli anni ‘30 nella prima – credo – tournée che egli fece a Roma.

Eravamo studenti assolutamente squattrinati. Ci  arrampicavamo fino all’ultima fila dello strettissimo, infelice loggione del Valle. E da lassù scoprii lui, Titina, Peppino. E poi – come tanti – continuare a vederlo, ascoltarlo, leggerlo. Annoto qui alcune impressioni; sono molto parziali, nel duplice senso di impressione di uno spettatore incompetente, anche di impressioni forse molto unilaterali, soggettive, probabilmente assai «forzate» . Ma anch’io penso che ricordare Eduardo significa discuterlo, sondare i molti, riposti sensi delle sue parole, dei suoi gesti; lui che – nonostante le apparenze – non è certo un autore semplice, facile, unilineare .

La prima impressione che avverto ripensando a ciò che ho visto di Eduardo, è proprio il contrario di una rappresentazione naturalistica delle cose, di un realismo nel senso corrente della parola. Anzi mi viene in mente subito la forte capacità di «astrazione», di simbolo, che sentivo in tante sue invenzioni sceniche, e prima di tutto nei momenti esemplari, esplosivi, «critici» delle sue storie. E dico: astrazione, non nel senso di teatro di «maschere», di una tipologia. Anzi: come la ricerca, la scoperta di qualcosa di riposto, che sfugge ad una classificazione esteriore, all’apparenza.

Vedo nella memoria lo spostarsi impercettibile del suo viso, i gesti abbozzati e poi come bloccati, contratti; le declinazioni degli sguardi; la sottile significante combinazione del movimento di una spalla, degli occhi, del braccio. E la parola che spesso si arresta, sospesa come per aria: si creavano attese; sembrava il rompersi un filo, ripreso poi come in un gorgoglio; e poi altre soste, scatti della parola.

Si creava così un contrasto paradossale tra la minuzia di tanti particolari scenici, fra l’apparente «verismo» del contorno e quegli scatti, ombre, borbottii, esplosioni, in cui sembrava manifestarsi il senso riposto di quelle cose e accadimenti; nella loro drammaticità o nel  loro ridicolo, o ambedue insieme.

In qualche modo si potrebbe dire che il volto di Eduardo, così poco veristico, così sottilmente mobile è inventato, aveva preso qualche cosa dalla recitazione «minimale» che viene richiesta dalla macchina da presa cinematografica. E tuttavia – almeno così mi sembra – la recitazione e la parola di Eduardo erano assolutamente il contrario di una riproduzione del reale, di tipo cinematografico  «normale».

Nell’ ingannevole naturalismo di tante sequenze, io ho visto sempre il contrappunto calcolato, rispetto a cui scattava l’evento rivelatore , l’atto persino simbolico che sembrava gettare un fascio di luce completamente nuovo sullo scenario: fosse esso il ghigno farsesco, l’esplodere della  «bagarre » comica, o invece il silenzio improvviso, la frase breve, il lampo della denuncia o del dolore.

Così in tante commedie, l’usualità convenzionale di facce, stanze, frasi, gesti, s’affacciava il mortaretto agghiacciante del sospetto, del dubbio, o della farneticazione che rompeva la ripetitività delle figure, degli usi, e introduceva l’inquieta emergenza di una contraddizione, di una incongruenza sconvolgente.

E l’opposto del verismo naturalistico mi è apparsa sempre la lingua di Eduardo ad opera delle sue commedie. Non ho gli strumenti e le competenze per una analisi. Da spettatore, però, ho sentito sempre che nelle commedie di Eduardo c’è una lingua tutta inventata: una favolosa combinazione di dialetto napoletano e di una «koinè» italica, che articola fra i diversi personaggi e a volte dentro lo stesso personaggio, a seconda delle situazioni, degli accadimenti, del tipo di relazione e dei conflitti. Anch’essa, la lingua, astratta invenzione; che passa per infinite modulazioni: trascolora dal napoletano assoluto alla mescolanza con quelli Italico «misto» a cui accennavo; a seconda dei personaggi, delle fasi della vicenda, della situazione che vive lo stesso personaggio. Perciò le commedie di Eduardo mi sono sembrate assai «scritte» ( anche se sappiamo come le inventava), segnate da un forte rigore formale. Non sono mai riuscito ad immaginare come esse potessero essere tradotte, o come funzionassero nella  traduzione , visto il peso essenziale che – nello svolgersi e precipitare delle situazioni sceniche – ha la modulazione di una lingua, così articolata, così – vorrei dire – differenziata e contraddittoria.

Non sono in alcun modo capace di collocare tutto ciò in una ricostruzione del linguaggio teatrale della tradizione napoletana. Registro la penetrante modernità, con cui Eduardo ha fatto giocare l’articolazione dei suoi vocabolari per rappresentare scale, passaggi, mutamenti di stato d’animo, manifestarsi di gerarchie sociali e familiari.

Ho visto «Natale in casa Cupiello», per la prima volta, da quel loggione del Valle. L’ho visto – come tanti – ridendo a crepapelle e insieme con un senso di oscuro struggimento Allora era già nella versione in due atti. Eduardo poi ne aggiunse un altro, che ha alcune notazioni bellissime. Non so però se quel terzo atto sia necessario, perché già nei primi due esplode nitidamente l’urto – ridicolo e tragico al tempo stesso – tra la prepotente tensione immaginativa di «Lucariello», tutto sprofondato nell’evocazione e nell’attesa dell’evento natalizio, e li precipitare attorno, di fatti, tensioni, che scavalcano e bruciano la favola del Natale. C’è in quel risveglio mattutino nella stanza da letto, e poi nell’attesa e nella preparazione del pranzo ecc. un ventaglio, un fluire di respiri, odori, brume, ombre, frastagliarsi di voci ed episodi, che appaiono di un verismo pungente. Eppure io li ho sentiti come l’accumulazione ossessiva di un farsi della realtà puntuale, ineluttabile, che consuma, fa saltare in aria in modo lacerante il sogno natalizio di «Lucariello». Secondo me, non ha molta importanza che la causa immediata del precipitare del dramma  la crisi del matrimonio della figlia di Lucariello) sia appena abbozzata in scorci assai sommari, persino melodrammatici (l’episodio a me appare quasi solo una annotazione didascalica, come fa Chaplin in alcuni passaggi i suoi film muti). Il conflitto è più profondo: «Lucariello» è ben più di un vecchio al tramonto che non sa vedere; è  la sete dolente dell’immaginazione, che tenta di scavalcare il fluire del tempo e la mutazione frantumata del costume e dei sentimenti.

È un urto che vedo tornare pressoché in tutto l’arco delle opere di Eduardo; maggiori e minori. Dappertutto nelle commedie si snoda la girandola di fatti, figure, figure, spazi, passaggi, in cui sembra raggomitolarsi il  particolare buffo, singolare, il colore, il senso di una figura, un’ora, una battuta. E la girandola prende lo spettatore, lo diverte, lo fa ridere. Ma ad un certo punto c’è l’esplosione del conflitto a illuminare la congerie «veristica» dei fatti, a riproporli come uno stringersi delle cose; di fronte a cui cozza la singolarità, l’anelito, la «fissazione», la follia di questo o quel protagonista. A un certo punto illuminazione drammatica sembra farsi simbolo.

Ecco perché non mi lascerei fuorviare dall’ambientazione, dall’uso naturalistico o anche “«macchiettistico» di certe figure, battute, situazioni. E non mi fermerei molto nemmeno sulle singole «moralità» che qualche volta vengono «dette» ( sempre con un velo di dubbio, con una riserva di lettura!). Sento dominante dappertutto, il conflitto tra lo spazio della fantasia l’aggrumarsi di stratificazioni sociali, di attriti anche frantumati, di abitudinei che stringono come lacci, sino al dramma e sino al ridicolo. E perciò, francamente, proprio non mi riesce di trovare nell’opera di Eduardo un’etica di «adattamento», pure alto, dolente, all’amara ineluttabilità degli avvnimenti. A me la sua opera – anche nei lavori più brevi – ha sempre lasciato la sensazione del disvelamento di un urto, di una inquietudine sia pure irrisolta.

In «Filumena Marturano» l’illuminazione del conflitto avviene alla fine: nell’esito che vieta a Domenico Soriano di conoscere, fra i tre, qual’è suo figlio. E non ci vedo tanto la vendetta della donna del popolo che alla fine afferma la validità della sua moralità, della sua legge. Mi è parso di leggervi qualcosa di più: un’affermazione di creatività insopprimibile della vita, che stavotta fa saltare l’intrico dei moduli che la stringono.

È stato detto che le opere di Eduardo sono pressoché tutte traversate da «fantasmi», i quali irrompono e traducono: e a volte s’affacciano per squarciare veli e scomparire, via prendo il dubbio sul confine tra follia e verità. Confesso che amo molto questo Eduardo «folle» che scruta fantasmi in quali stanno «dentro»: sepolti. mi pare di vedere dinnanzi a me quel suo volto così improvvisamente fermo e così infinitamente mobile, che si tende ad ascoltare voci possibili, ad eseguire immaginazioni indistinte, fugare inquietamente dentro le maglie minute, consumate, intrise di fatica, della quotidianità: a ricercare ed ascoltare la le domande di una soggettività ferita, di una «follia» derisa e insaziata.

Su un punto mi piacerebbe fare una ricerca: se vi sia e come vi sia, nella sua opera, la versione della «macchina» nel suo significato più lato: di modo di essere del nostro tempo, dell’industrialismo moderno. Io ne dubito. Ho l’impressione che anche in «Napoletani a Milano» vi sia più la conseguenza dell’emigrazione e dell’urbanizzazione selvaggia, piuttosto che l’avvicinarsi al senso, alle «ragioni», alle implicazioni della razionalità tecnica moderna: è come vedere un sussulto, un terremoto negli effetti che ha sulla vita la più quotidiana.

Ciò è perché Eduardo è uomo del Sud, investito dall’esterno dall’onda travolgente e assimilatrice della modernizzazione? Non credo. Forse si tratta di altro: forse si tratta di un atteggiamento e di una cultura che vede la società, più che nell’atto produttivo, nel momento della sua riproduzione vitale, nelle vie, nelle piazze, nelle case, nelle famiglie, negli sconvolgimenti  «Valle delle passioni, delle credenze, delle gerarchie. Forse sbaglio. Ma io avverto che nelle commedie di Eduardo certe facce degli eventi restano «misteriose». E perciò le crisi spesso, prendono le sembianze di «fantasmi».

Può sembrare strano tenere questi discorsi per uno scrittore così intriso di «fisicità» reale; di certe ore, figure, momenti, date. A me sembra che dentro quella materialità così carnosa, egli allude: evoca, ammicca, pronuncia brani di parole, come lampi. Nel linguaggio indimenticabile di «Zi’ Nicola» nelle «Voci di dentro», che dalla sua volontaria reclusione lancia messaggi al mondo attraverso i lampi e gli scoppi dei fuochi d’artificio.

Confesso che sono colpito dal contrasto tra questa allusività, così pungente nella sua «misteriosità», così aspra nel suo riso, e il suo grande, si potrebbe dire così «naturale», così solidale, successo di pubblico. Probabilmente ha giocato in tutto ciò la straordinaria volontà e capacità di Eduardo di comunicare; che gli veniva anche dal suo sentire così acutamente la sofferenza degli incomunicanti, l’ingiustizia fatta agli esclusi (come lo avvertii nella discussione che ebbi con lui sulla sorte dei minori condannati al carcere!).

Anche la frase famosa «Adda passà ‘a nuttata» non è poi così tranquilla e rassicurante. Forse è una frase polisenso, come avviene spesso per autori grandi, che parlano a mondi complessi.

C’è dentro di essa la coscienza di una terra che ha vissuto un impatto sconvolgente con la modernità; ma anche un dirsi tutta l’altezza e la portata della prova: guardandola in faccia.

Pietro Ingrao

8 ottobre 1978. Pietro Ingrao a Napoli. Archivio Mario Riccio-Infinitimondi

La foto di apertura ritrae Eduardo nel settembre del 1976 al Festival Nazionale di Napoli.

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