L’INCONTRO E LA MILITANZA CON I COMUNISTI ITALIANI, LA MIA STORIA D’AMORE E D’INTENTI. IL RACCONTO DI UNA GENERAZIONE CHE HA FALLITO L’OBIETTIVO DEL GOVERNO


Caro Centoannipci,
il tuo invito a testimoniare per il progetto di memorie militanti che Infinitimondi sta mettendo su per onorare i cento anni dalla nascita
del partito comunista italiano, in questi giorni di pandemia, l’ho accolto con gioia politica, e i miei pensieri si sono indirizzati in modo perpendicolare con il filo di piombo ( la contemporaneità ) in caduta sulla retta della memoria.
E sul filo e su quel piano mi sono messo al lavoro: Casa del popolo di Miano, Sezione Secondigliano centro, Sezione Novella a Capodichino, Sezione del Monterosa, Sezione di San Pietro a Patierno: un pezzo di vita, il mio, nell’anima sociale di una comunità che cominciò a disperdersi sotto i colpi del Made in Italy e che non resse al lutto dell’improvvisa morte di Enrico Berlinguer, l’austero e amato leader comunista che inseguiva la terza via tra il socialismo e il capitalismo.
Una visione dell’emancipazione umana dallo sfruttamento, liberata dalla guerra, in armonia con il creato, anche se noi non lo chiamavamo così: marciavamo contro le guerre, per la pace sulla terra.
La nostra militanza, eredità del conflitto di classe, con l’affermazione vincente del capitalismo, cominciò a divenire lotta per contrastare le logiche più spregiudicate, che affascinavano le nuove generazioni con il consumismo, l’usa e getta, il soldo facile a danno dei diritti del lavoro, dell’istruzione, della cura e di quelli civili
La mia generazione di comunisti italiani era scissa a metà. Da una parte il glorioso passato e dall’altra un futuro incerto. E noi stavamo in mezzo alle trame nere e alle brigate rosse con l’ago nelle vene. E fummo chiamati alla mobilitazione, alla fermezza, all’approfondimento della forza della laicità che, nella pienezza del suo agire, mostrava quanto fosse forte nel produrre cambiamenti radicali sulle tradizioni più arretrate. La laicità favoriva l’incontro e la richiesta corale del riconoscimento dei diritti delle persone indipendentemente dalle loro condizioni di genere, di fede o di classe.
E’ una visione politica, la laicità, dei destini degli uomini e delle donne. E con questa convinzione che mi iscrissi al partito comunista italiano. E con questa pulsione, ancora adesso, cerco di rispondere alla domanda che spesso i più giovani, che frequentano la mia casa, mi pongono: chi erano i comunisti italiani?

CHI ERANO I COMUNISTI ITALIANI. MIO PADRE, INTANTO.
Erano una comunità politica, della quale feci conoscenza a dieci anni, nel 1972. Finita, per l’anagrafe dei partiti, nel 1991, con lo scioglimento senza progetto di Achille Occhetto. Per proseguire poi nella confusione di nome in nome, senza scegliere tra la Quercia e l’Ulivo, fino ad invocare una vocazione maggioritaria per niente gramsciana.
Finì con la ricerca della Cosa Dalemiana e si concluse con una fusione fredda tra ciò che restava della democrazia cristiana non andreottiana, non dorotea e noi.
Ai più giovani racconto che ero uno bambino, nel 1972, quando senza ancora saperlo diventai comunista italiano. E non perché in casa si parlasse di politica. Allora l’imperativo familiare era lottare per la sopravvivenza. Ed era un corpo a corpo senza pause per non finire al tappeto.
Mio padre era un operaio comunista, da ragazzino, a dodici anni, aveva lanciato bottiglie incendiarie contro l’occupante nazista alla Sanità. La libertà se la era conquistata, ed, insieme ad essa, aveva conquistato anche la sua dignità di lavoratore. A queste due conquiste non rinunciò mai, e la mitezza del suo carattere si trasformava in ira contro chi le metteva in discussione. Era un uomo che faceva il suo dovere, rispettoso delle leggi, e, dunque, non aveva alcun riguardo verso i padroni e i prepotenti.
Era un saldatore elettrico di precisione, mio padre, e per 22 anni ha lavorato in fabbrica. Fu licenziato perché non accettò di peggiorare le sue condizioni di lavoro. Ed era padre di cinque figli. Così finimmo per occupare una casa popolare nella Masseria Cardone, destinata a diventare negli anni ottanta un brand criminale di successo, e sotto la guida della nonna e della mamma, donne di straordinaria forza ed umanità, io e i miei fratelli fummo chiamati alle nostre responsabilità e iniziammo un percorso di studio e lavoro che continua tutt’ora.
Chi erano i comunisti italiani? Chi, come mio padre, non cedeva allo sfruttamento e alle umiliazioni. Chi, come mia nonna, mia madre, la maestra, la professoressa ci educavano a percorrere le rette vie.
E su una di quelle rette vie ho incontrato i comunisti italiani. Avvenne sulle strade del quartiere Vasto e mi portò ad essere l’ultimo segretario del pci della sezione di San Pietro a Patierno.

LO SCIOGLIMENTO
Ciò che ricordo del congresso che sancì lo scioglimento, sono le lacrime di chi non voleva staccarsi da quel nome così identitario e gli argomenti che sostenevano la tesi che poi avrebbe prevalso. Io mi espressi per la fondazione del partito democratico. Per farlo immediatamente su radici non simboliche ma concrete, le nostre radici italiane, della sinistra italiana, di quella visione che avevamo contribuito a scrivere nella Carta costituzionale.
Insomma, per me eravamo in ritardo. Berlinguer era morto, in Vaticano c’era un papa polacco, l’Unione Sovietica sarebbe venuta giù come un castello di carta, Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il primo Presidente degli USA e la seconda leader britannico, affermavano politiche neoliberiste, Yasser Arafat era il leader dell’OLP, Nelson Mandela stava in galera e Cuba era il sogno mai realizzato di mia moglie Antonella, femminista e comunista che guardava all’Africa con gli occhi pieni di gratitudine e i capitalisti speculatori occidentali come gente orrenda che portava via dal continente più bello del mondo le ricchezze minerali e naturali e gli uomini e le donne da sfruttare in occidente nel lavoro nei campi e sulle strade della prostituzione e dello schiavismo. In Cina Mao era morto. In Spagna Franco. E la musica e il canto degli Inti- Illimani ci portavano in Cile, in Sud America, ai colpi di Stato militari, ai desaparecidos, a Berlinguer che affermava di sentirsi più tranquillo sotto l’ombrello della Nato.
Nel 1989 cadde il muro di Berlino, fu picconato e raso al suolo. In Europa sorgevano nuove opportunità continentali e in Italia un socialista molto liberal, Bettino Craxi, contro i comunisti, costruii il suo successo e la sua caduta, che coincise, con gli effetti devastanti di tangentopoli, alle più funeste conclusioni della questione morale, che Enrico Berlinguer indicò come la vera emergenza del Paese.
Così, tra le proteste dell’assemblea, cercai di spiegare che fuori dalle nostre sezioni la vita era andata avanti, che c’era chi sosteneva con successo che era piena d’opportunità se avessimo smantellato il lavoro a tempo indeterminato, privatizzato i servizi pubblici, inseguito il sogno americano in salsa italiana. E che noi, pur non negando l’iniziativa privata e la valorizzazione dei talenti, dovevamo confermare nella linea politica del partito nuovo, che eravamo chiamati a costruire, l’egemonia culturale gramsciana e la visione emancipativa della società immaginata da Berlinguer.
Questo nostro patrimonio lo si lasciò, invece, disperdere. Diverso fu l’atteggiamento nei confronti del patrimonio immobiliare, che fu messo in cassaforte in una fondazione. Addio sezioni. Cancellato quel sudore e quel sangue che i comunisti napoletani, come tutti i comunisti italiani, avevano versato per costituire quel patrimonio di mura e di belle persone che inseguivano il sogno del socialismo nella libertà.

DENTRO IL PD SEPPUR INSODDISFATTO
Sono stato testimone del cosa non volevamo essere come comunità democratica, e mai di cosa dovevamo essere nella democrazia italiana. Di nome in nome, fino al 2007, quando è nato il partito democratico. Su cui stendo un velo pietoso come iscritto, e sul quale rinnovo la speranza. Al quale consegnammo, nel periodo più nefasto della storia politica della sinistra napoletana, nel 2012, dopo il commissariamento seguito alle primarie truccate, un dossier frutto di una ricerca capillare in ciò che restava dello scheletro democratico in città. E per farla, insieme con Michele Caiazzo, Salvatore Salzano, Ernesto Paolozzi, e tanti altri provenienti dalla stessa contaminazione politica, battezzammo la Lega democratica napoletana e demmo vita ad una ricerca di comunità che coinvolse oltre duemila tra iscritti e simpatizzanti. L’allora commissario Andrea Orlando, preferì non ascoltare. E quel non ascoltare, fu per me, il vero finale di partita: nel PD, della prassi dei comunisti italiani non c’era più nemmeno l’ombra. Ciò che contava, scritto nero su bianco, erano le correnti e le microcorrenti di carattere autoreferenziale, che finirono per consegnare il partito a Renzi, il piombo di caduta di tutta la storia.
Casa del popolo di Miano, Sezione Secondigliano centro, Sezione Novella a Capodichino, Sezione Monterosa, Sezione di San Pietro a Patierno. Luoghi diversi, storie sociali diverse: comunità vive di vita maledetta. Quartieri dormitorio. Eroina come orgasmo. Famiglie devastata dalla povertà.

A CHE SERVIVANO LE SEZIONI DEL PCI Ma anche altro, ed era lì, nella sezione del pci di Secondigliano centro. Insieme uomini e donne di diversa provenienza, riconoscibili sul marciapiede periferico della città di Napoli. Impegnati a dare risposte ai bisogni quotidiani dei cittadini e delle cittadine, dentro una visione politica nella quale casa, lavoro, cura e istruzione erano diritti negati. E a chiedere che quei diritti divenissero pane quotidiano c’erano vecchi partigiani, operai, intellettuali, la bella gioventù che veniva formata sui principi politici e sulla prassi da seguire per metterli in opera, ma anche tanti altri che comunisti non lo erano affatto, ma che per i comunisti italiani facevano un’eccezione.
Erano gli stessi diritti che avevano negato alla mia famiglia, a me e a tutto l’alveare della Masseria Cardone, dove oggi risiede il quartiere generale della Camorra spa.
Diritti, che prima del mio incontro con i comunisti italiani, come tutti gli altri, che vivevano la mia stessa condizione, cercavo di ottenere come potevo. Se necessario anche rubando uno spicchio di luna a quella classe media che invece abitava nelle residenze private e abusive che ci proiettano inevitabilmente nel sacco di Napoli, nell’era dei palazzinari, che poi trovarono nuova linfa vitale con il terremoto dell’ottanta, con la costruzione dei rioni della 219, disegnando così, sciaguratamente, il futuro criminale della città, dei clan familiari, che sono sotto i nostri occhi e che non rendono giustizia all’azione del sindaco comunista Maurizio Valenzi, del quale ho un affettuoso ricordo e verso il quale ho gratitudine personale per il sostegno che mai mi ha fatto mancare nelle mie scorribande editoriali.

MAURIZIO VALENZI
Maurizio Valenzi, il sindaco comunista, la sera del terremoto del 23 novembre 1980, si recò a Palazzo san Giacomo è lo illuminò a giorno. Il sindaco era al suo posto, la città si strinse intorno a Maurizio. Che aveva già i piani di rigenerazione urbana, li aveva preparati nel corso degli anni coinvolgendo la Facoltà di architettura. E quei piani di ricostruzione della città furono approvati dal governo e Maurizio Valenzi capì che non sarebbe stato lui a seguire la realizzazione. Mi confidò, in una chiacchierata a casa sua, che quando tornò a Napoli con quella bella notizia, lo aspettavano all’hotel Excelsior i costruttori napoletani al gran completo. lo accolsero con una standing ovation. Sulle prime non capì. C’erano ancora i morti a terra e quel giubilo gli sembrava fuori luogo. Poi, realizzò: era mille miliardi che camminavano.
Maurizio Valenzi a noi giovani napoletani aprì le porte dell’arte e della creatività. Ci consegnò una tessera e con quella potevamo andare gratis al cinema, al teatro, ai concerti, al museo. Ci regalò la bellezza e delle meravigliose estati in città.
Scrivo sul filo della memoria e i ricordi si indirizzano ora qui ora là. Mi scuserai. Mi scuseranno i compagni e le compagne che non cito e che sono parte di me. Ma questo raccontare da testimone tra testimoni, mi proietta negli anni ottanta napoletani, quando dinanzi ai nostri occhi le realtà marginali misero durature radici criminali all’Arco, alla Masseria Cardone, al Rione Don Guanella, al Monterosa, a Miano, a Mianella, dentro e fuori i nuovi rioni della 219.
La federazione giovanile comunista napoletana, mi affidò, in quegli anni, il coordinamento dell’area nord della città e cominciai a frequentare i quartieri di Piscinola, Marianella, Chiaiano, Scampia. La periferia urbana mi apparve gigantesca e la mancanza di lavoro, di case, come l’abbandono scolastico e le malattie mentali piaghe che in troppi curavano vendendo o iniettandosi droga.
Provammo a reagire e realizzammo due iniziative che all’epoca ci sembrarono epiche e che invece furono lumini accessi con molto ritardo: la camorra aveva preso nelle sue mani le chiavi della città e per tutto il decennio si contarono circa trecento morti all’anno. Chi vinse, successivamente, ha imposto la propria egemonia culturale, dentro un Sistema di governo degli affari e del territorio che sarà molto difficile sconfiggere senza un’azione politica lunga, faticosa, di alfabetizzazione di massa alla legalità.

GIOVANNI MANZO
La prima iniziativa fu la convocazione di una marcia anticamorra sostenuta dai comunisti, dai sindacati e dal mondo associativo. Marciammo dalle quattro vie di Secondigliano fino a via del Sabotino, di sera, al buio, dove avevamo organizzato il palco per il comizio finali. A quella iniziativa partecipò Antonio Bassolino, responsabile del mezzogiorno e membro della direzione nazionale del partito. Il segretario della sezione Secondigliano centro, Giovanni Manzo, temendo una delle mie inventive, mi seguì come un ombra, fin sopra il palco, raccomandandomi di parlare poco, di limitarmi a ringraziare della partecipazione e a confermare il nostro impegno e dare la parola a Bassolino. Per tutto il tempo, non tranquillizzai affatto Giovanni. Sostenevo che Bassolino doveva concludere e che quello era il nostro giorno per dire quello che noi pensavamo, ad esempio sulla legalizzazione delle droghe leggere, riscontrato il largo consumo e la produzione e commercializzazione criminale. Insomma, caro Gianfranco, ero intenzionato a fare venire una sincope al povero Giovanni. Salì sul palco, andai incontro a Bassolino, era già su, e mi presentai. Lui mi disse: mi raccomando, di tutto ciò che hai da dire. Ringraziai i partecipanti, confermai il nostro impegno e diedi la parola ad Antonio Bassolino. Giovanni si illuminò di approvazione. Aveva vinto con l’aiutino dal palco ed io da quella sera ho cominciato a voler bene ad Antonio. Che poi sarebbe diventato sindaco amatissimo della città liberandola dalle macerie materiali, ma non da quelle morali, visto come è andata a finire.
La seconda iniziativa fu per lavoro. Ciò che volevamo era un piano straordinario per l’occupazione e un salario garantito per tutti. Fu un viaggio indimenticabile che noi giovani comunisti dell’area nord facemmo andando androne per androne, circolo per circolo, nelle sedi dei movimenti per il lavoro che mettevano in campo nuovi protagonisti sociali mentre il sistema industriale cedeva sotto la spinta della deindustrializzazione. Ricordo quella domenica mattina, quando tirammo le conclusioni in un incontro pubblico con i nostri parlamentari.

Ricordo la presenza di Umberto Ranieri, di Gerardo Chiaromonte, di Angela Francese, di Nanà e il cinema occupato in ogni ordine avvolto in un tributo di bandiere del Napoli calcio. C’era la Juve al San Paolo e ci dovevamo sbrigare. Il tifo sconfisse la prospettiva e il partito comunista napoletano divenne un bersaglio politico dei movimenti di lotta per il lavoro.
Anni felici e formativi quelli del pci. Quell’esperienza, confesso, è ancora viva in me come una scelta di vita, parafrasando il titolo di una storia d’amore scritta da Giorgio Amendola, di cui non mi sono perso un comizio. E il cui invito al lavoro e alla lotta, ancora risuona in me come una tromba in battaglia.
Il pci era portatore di cultura e conoscenza politica, la sua formazione si legava alla rivoluzione industriale, al mondo delle fabbriche, alla lotta allo sfruttamento, ai diritti dei lavoratori a godere del riposo e della giusta paga. Poi si fece rivoluzione con i russi e internazionalista con l’avvento della rivoluzione. In Italia fu antifascismo, democrazia, repubblica, Europa, occidente. Insomma, eravamo diversi da tutti gli altri partiti comunisti europei, del mondo, con il nostro sogno di terza via al socialismo, con la nostra fermezza contro la mafia, il terrorismo e l’occupazione dello stato per mano dei partiti.
Avverto come un macigno questa mancanza di visione del futuro che l’Italia ha. E se la mia riflessione mi porta a costatare che siamo diventati un Paese con poche nascite e di vecchi, la realtà ci dice: Pandemia. E l’Italia, per il virus è stata, ed è, una terra senza difese generazionali.
Rifletti: in Italia nascono sempre meno bambini e la pandemia si è portata via la generazione che ha vissuto il fascismo e l’antifascismo. Possiamo scrivere, per paradosso, che l’Italia è una nazione senza testa né coda. E sai perché? Perché le esperienze girotondine, viola, arancione e sardine varie hanno contenuto il virus sovranista senza mai divenire una comunità politica nazionale riconoscibile dentro un partito
Parlare del partito comunista italiano, nel centenario della sua nascita è un invito a discutere di oggi, di una visione globale degli avvenimenti che solo forze politiche che si riconoscono in un internazionale possono percorrere per salvare il creato e l’umanità.
Per questa ragione, non abbandono il filo della memoria: ritornare all’inizio di un percorso non ancora concluso di militanza a favore delle classi sociali deboli nel mio Paese in sintonia social, possiamo dire oggi, con tutti gli sfruttati che nel mondo lottano per la propria emancipazione, per più giustizia sociale, per più eguaglianza, per più pace non è un esercizio facile da razionalizzare.

Gennaro Prisco

LA MIA ESPERIENZA DI VITA.
Diventai comunista per necessità, cominciai a lavorare e non avevo ancora compiuto dieci anni. Scuola e Lavoro. Ero orgoglioso di me, anche io contribuivo al sostentamento familiare. Ciò che non tolleravo, e fu causa di grossi problemi, erano i masti napoletani. Brutte persone, si arricchivano sullo sfruttamento del lavoro, minorile o adulto che fosse. A me non piaceva essere sfruttato. E ai miei occhi, il padrone era il Masto. Ed io ne ho conosciuto davvero di bastardi. Ma anche due, su decine, di grande umanità.
Li voglio ricordare perché non comunisti, bensì cattolici. Con i quali caddero le barriere ideologiche per una ragione di fondamentale comunanza del senso del dovere, della comprensione dell’altro. Insomma, a dodici anni senza saperlo, a diciotto con consapevolezza, praticavo l’incontro politico con i cristiani.
Dodici anni, 1974. Fui licenziato per aver mandato a quel paese il Masto del Bar Tony, a via Torino. Fui preso a lavorare e al bar Sarti di via Nazionale.
Conobbi così i miei primi datori di lavoro, i Sarti. Commercianti severi ma rispettosi del lavoro e dei dipendenti.
Il capostipite, un vecchio signore sempre ben vestito e con il fazzoletto nel taschino, era ricco di buone maniere e di compassione. Lavoravo a nero, ma la paga era buona e i cessi li lavavano i baristi, che ricevevano paga e contributi.
Il bar Sarti si trovava in via Nazionale, ed io portavo il caffè agli ambulanti di via Ferrara, ai negozianti della strada, agli avvocati e alle sezioni politiche.
Quella dei comunisti, Vicaria, era a pochi passi dal bar ed ogni pomeriggio, prima di recarsi in sezione entrava nel bar un ragazzo rosso di capelli e barba, con un eskimo delirante, in senso positivo ai miei occhi, che cadeva su un jeans consunto che sul retro s’alzava in direzione della tasca per mostrare, con l’intento di farlo vedere, l’Unità. Era inverno.
Lo seguivo con lo sguardo, ma non riuscivo a trovare il coraggio per chiedergli: che giornale leggi? Finì che lo comprai e lo lessi senza capire assolutamente nulla. Che lingua era? Come era povero il mio vocabolario.
Mio zio Fulvio, ch’era uno dei baristi che s’alternava al banco, vide l’Unità e sorridendomi mi disse: è il giornale dei comunisti, io sono comunista, ma non lo dico, i Sarti sono democristiani. Nascondi quel giornale. Non lo feci e con i Sarti cominciammo a discutere. Ma questa è un’altra storia.
Dopo che i Sarti vendettero la loro attività, il nuovo Masto, fascista fin nel midollo spinale licenziò prima me e poi anche zio Fulvio. E per me iniziarono altri anni di sfruttamento con l’Unità sempre ben in vista sul retro dei jeans. E’ stato quel giornale la mia carta d’identità politica. E’ stato quel giornale il documento di riconoscimento che permetteva di incontrare persone e mondi che avevano una stessa visione dei fatti. Non a caso, una delle attività della militanza, era la distribuzione e vendita dell’Unità, casa per casa e con il bancariello fuori le sezioni.

L’UNITA’ PER ME
Non mi ha risparmiato la fatica, l’Unità: ma mi ha istruito, reso consapevole. E quando finì al bar del Serraglio, a Piazza Carlo III, dove si amministrava la giustizia minorile, a sedici anni, mentre frequentavo il Ferdinando Galiani ed ero molto attivo nel movimento studentesco, capì, in quell’oscurità ambientale, che io ero un privilegiato. Portavo il caffè nelle celle, che odoravano di piscio, ai ragazzini in attesa di giudizio per aver commesso atti criminali. E capì quanto i giudici fossero inflessibili con gli azzeccagarbugli e quanto flessibilissimi con i principi del Foro. l’Unità, forza di un simbolo comune, mi avvicinò a giudici e avvocati che credevano nelle conclusioni di Cesare Beccaria sui Delitti e le Pene.
La nostra storia, quella che sto cercando di raccontare, è la storia di una comunità politica che s’interrogava sui fatti che avvenivano nel mondo e sulle proprie oggettive condizioni. Quindi una comunità ricca di saperi ed esperienze che si condividevano e aprivano la mente.
Eravamo Peppino Di Vittorio che, a muso duro, ricordava a Palmiro Togliatti, che in Ungheria, siamo nel 1956, i comunisti sparavano contro gli operai. Allo stesso leader, che nel quarantaquattro, a Salerno propose con successo di costruire un fronte antifascista per liberare l’Italia dall’occupante nazista, sconfiggere con l’onore delle armi il fascismo, scrivere la Costituzione più bella del mondo, riconoscere il diritto universale al voto.
Chi erano i comunisti?
Forse ti sembrerà un’eresia: quelli che oggi piangono la morte di Maradona. Napoli è diventata un fumogeno rosso fuoco e il San Paolo illuminato a giorno è divenuto un tempio, e in quel tempio ho scorso il sacrario del tempo, quello di ognuno di noi, quello che portiamo con noi e quello che lasciamo agli altri, al tempo futuro, se sapremo rispondere alla crisi ecologica, umanitaria curando il creato e la vita.
Chi erano i comunisti?

MARADONA PER NOI
Maradona vinse, in una città sconfitta, e noi fummo felici assieme agli altri. Ci godemmo quell’allegria pur sapendo che sarebbe durata poco, che la città del vizio avrebbe costretto la fuga di Maradona e il nostro declino.
Cosa c’entra questo con la tua sollecitazione a raccontare gli anni del Pci, nel suo prossimo centenario? C’entra, eccome. Tutto ciò che ha interessato l’esperienza storica del Pci si è nutrita della contemporaneità dell’Italia repubblicana, antifascista, partigiana, costituzionale. Di una diversità autentica rispetto agli altri protagonisti della vita politica della nazione. Autentica perché interprete dei diritti dei lavoratori, della lotta dell’emancipazione delle donne, dei diritti civili, dell’europeismo e del pacifismo. Argomenti ostili al mondo moderato e conservatore di matrice cattolica. Ostili alla cultura del tengo famiglia, del vengo prima io, ancora molto popolare tra le italiche genti. Noi proponevamo un modello economico di austerity. Molto fuori tempo con il made in Italy servito sulle tavole globali e i computer sulla scrivania.
Maradona è venuto a Napoli nell’ottantaquattro, l’anno in cui è morto Enrico Berlinguer.
L’anno in cui i socialisti di Bettino Craxi governavano la Milano da bere e la Repubblica con le mazzette in bocca di Silvio Berlusconi, dell’Innominabile che riuscì attraverso le televisioni a manipolare un intero elettorato che si trovò, con tangentopoli, orfana dei socialisti e dei democristiani. Ai quali fece ingoiare anche l’apertura ai partiti di origine fascista.

EMILIO LUPO
Caro Centoannipci,
quando mi hai invitato a partecipare a questo viaggio nella memoria,
mi hai mandato volantini e articoli di giornali, provenienti dall’archivio di Emilio Lupo, psichiatra, seguace della scuola di psichiatria di Franco Basaglia. Ho provato emozione. Emilio con la sua presenza è stato una delle personalità politica più innovative della sezione del Partito comunista italiano di Secondigliano centro. Una delle personalità che resero quella sezione una delle più attrezzate e vitali degli anni settanta e ottanta. Frequentata da compagni e compagne che mi accolsero nella loro comunità politica nonostante non fossi un comunista comunicato, ma un misto fritto di educazione cattolica e comunista che aveva conosciuto la laicità, l’antiproibizionismo, la forza impressionante delle donne che, attraverso l’autocoscienza proposta dalle donne comuniste, prendeva forma lontano dal focolare domestico.
Ogni storia è una storia a sé. E la mia è un concentrato di incontri che hanno evitato che diventassi un malvivente.
Non voglio prenderla alla lontano, ma ho maturato la convinzione che la mia generazione è stata l’ultima generazione con ancora le ferite della guerra in casa e la prima generazione affamata di consumo e di comodità. Che ha vissuto immersa fino alla gola dentro il miracolo economico della ricostruzione. Sconvolta dal conflitto generazionale del sessantotto. Sempre alla ricerca di una propria via per assaporare la libertà propria e quella degli altri.
Noi sapevamo che la libertà era stata una conquista sanguinosa e che andava sempre difesa per non perderla, con più di mezzo mondo in mano a dittatori e imperi e con il terrorismo in casa e la criminalità in cucina.
Diventai comunista ed ho goduto di quella fraternità e sete di giustizia che i più esprimevano con le loro facce della fatica, del lavoro come liberazione dalla precarietà. La stessa di oggi. Anche se la società liquida, quella che si cominciò ad affermare negli anni ottanta, quella che sta dimostrando tutte le sue falle oggi, facendo i conti con una pandemia negata sempre di più da una società malata di irrealtà virtuale
La mia generazione, quella dei ragazzi e delle ragazze del settanta, esattamente non sapeva cosa fare. Posso dire, oggi, che a mano a mano che i diritti civili diventavano leggi, altre leggi sottraevano risorse ai diritti primari del lavoro, della casa, dell’istruzione, della cura proprio in ossequio a quei diritti individuali di privilegio del privato sul pubblico, che ci ha mostrati disarmati dinanzi alla pandemia.
Dunque, non sapevamo cosa fare e siamo finiti per nasconderci nel privato è bello. Una sciocchezza costata cara: noi eravamo la generazione tramite, il passaggio obbligato. Abbiamo mancato. E sotto i nostri occhi di sopravvissuti abbiamo visto fiorire l’individualismo, una spinta politica dirompente che ha liquefatto la socialità e deindustrializzato il Paese. Portandoci, qui e adesso, dentro una realtà dove hanno successo pure i terrapiattisti.


PERSONAGGI DI SEZIONE. DONNE E UOMINI SEMPLICI. MA IMPORTANTI Tornando a quegli anni, però, ciò che mi ha entusiasmato poter raccontare è una storia di formazione politica che, oggi, mi consente di ragionare su scenari ampi e su quelli piccoli piccoli con lo stesso rigore e le stesse domande a cui rispondere per alleviare le pene dell’umano rafforzando la democrazia repubblicana, la laicità, la giustizia sociale, la parità di genere, l’abbattimento dei muri come difesa dai matti e dagli invasori che fuggono dalla povertà, dalle guerre, dalle dittature per regalarsi una possibilità, una speranza.
Argomenti che erano al centro dell’interesse politico e che spingevano i comunisti italiani a sperimentare forme di istruzione e cura efficaci per rispondere alle nuove esigenze dei cittadini deboli nel contesto di una crescita numerica della classe media, fortemente pervasa dalla mobilità sociale, determinata a giungere step dopo step al passaggio nella classe dei ricchi.
Chi erano i comunisti? Per la mia generazione, quelli che non presero il potere.
Se la famiglia di mio padre era operaia e socialista, quella di mia madre cattolica e democristiana. Fino a quando non sono entrati in casa i dorotei, questo aspetto non pesava sulla nostra educazione. Poi fecero il loro ingresso i dorotei ed io cominciai a provare disprezzo per quegli uomini che promettevano lavoro e sussidi e che raccoglievano il loro enorme consenso tra la povera gente che già si era accontentata delle scarpe di Achille Lauro.
A quindici anni presi la mia prima tessera, m’iscrissi alla Federazione giovanile comunista, quella del circolo dell’Istituto di ragioneria Ferdinando Galiani. Frequentai quell’istituto senza alcuna ragione, al conseguimento del diploma della scuola media non mi diedero indicazioni: potevo far tutto. Nell’indecisione seguì i miei amici più cari e mi trovai immerso nella scuola pubblica di massa, con i tripli turni e un turn over di professori di sinistra di assoluta grazia. C’insegnavano tanto, ed ogni volta la nostra ignoranza mostrava tutta la sua ampiezza. Come giovani comunisti andavamo molto d’accordo con la Cgil e cercavamo assieme di trovare le soluzioni giuste per far funzionare una scuola superaffollata. Contro avevamo l’Autononia operaia, il Punto rosso ei fascisti.
Siamo negli anni che vanno dal ’70 e l’80, anni lontani, del novecento, dove i nostri nonni hanno piantato le loro radici storiche, così come poi noi abbiamo fatto per oltre la metà del secolo. Eravamo la generazione che sentiva gli echi della prima guerra mondiale circolare per la strade storpie, che conosceva la fame che prendeva lo stomaco. Ma anche quella generazione che assorbiva l’euforia degli zii e delle zie che vivevano da consumatori il miracolo economico, la rivoluzione dei costumi avvenuta nel sessantotto che liberò il loro sguardo verso il futuro in un contesto di guerra fredda, di trame nere, di corruzione sociale, di difesa del patriarcato e di un’idea di società basata sul tengo famiglia che spinse la mia generazione ad odiare i padri e pure i fratelli maggiori, e a dare vita al settantasette, lasciandosi trascinare prima verso l’individualismo, per essere poi identificati come cattivi esempi dai propri figli che intanto erano nati nell’era digitale. Ma questo lo sapevano in pochi.
In quegli anni a Secondigliano la sezione del Pci di Secondigliano centro era uno straordinario punto di riferimento politico. Il mitico segretario operaio Giovanni Manzo, scomparso da poco, aveva una visione riformista della politica e una curiosità intellettuale verso la contemporaneità e gli indisciplinati come me.
Era una guida: C’era il dogma e c’era la vita fuori. E lui organizzava le attività della sezione coinvolgendo ognuno di noi, e questo consentiva gli incontri dei percorsi diversi, delle provenienze diverse. E si imparava dalle lunghe discussione, dalle ragioni degli uni e degli altri a far funzionare il cervello e a godere di quell’eredità preziosa che è la libertà. Lì ho conosciuto Emilio Lupo, un giovani medico dei pazzi che voleva liberare i pazzi dal manicomio. Lì ho conosciuto la filosofa Annamaria Frau, che mi trascinò nei consultori ad ascoltare l’autocoscienza delle donne che stavano definendo la loro lotta per l’emancipazione. Lì ho conosciuto i partigiani Gennaro De Cicco e Giovanni Tartaglione, che si inventarono due sistemi diversi per ideologizzarmi e correggere quelle mie intemperanze contro certi atteggiamenti per niente laici che procuravano giudizi e pregiudizi verso le diversità. Emilio sosteneva che i matti o erano malati e andavano curati fuori dai manicomi o erano uomini e donne assolutamente sani, finiti lì dentro perché ribelle o ribelli. Invece, i partigiano Gennaro e il partigiano Giovanni erano operai ed erano diversamente pazzi. Così, Gennaro De Cicco la domenica mattina mi aspettava in strada, fuori casa mia, con la scusa di doverlo sostenerlo nel cammino poiché le sue gambe non lo reggevano bene. Fingeva, e per percorrere meno di un chilometro, dalla Masseria Cardone al Corso Secondigliano, dove era situata la sezione, ci mettevamo un’ora. Lo ascoltavo e gli ponevo domande. Lui aspettava Baffone. Giovanni Tartaglione, invece, mi attendeva seduto al tavolo delle riunioni con il giornale disteso. Mi chiamava e mi faceva segno di avvicinarmi, e con la scusa che non riusciva più a leggere mi costringeva a letture lunghe e ponderate su quello che è stato il mio unico affetto stampato: l’Unità. Sul qual mi sono erudito e sul quale ho sognato di diventare anche io un giornalista militante e indipendente.
Un altro diversamente matto era Gennaro Fasanella, un personaggione, somigliava ai fornai delle favole e partecipava alle riunioni sempre con un grosso palatone di pane sotto il braccio. Ci piacevamo e lui ogni 7 novembre che cadeva sulla terra dei Censi, invitava me i miei amici, diversamente comunisti, ad ascoltare, in russo, dalla radio, i discorsi celebrativi sulla rivoluzione. Un sottofondo che accettavamo di buon grado poiché il divertente Fasanella ci deliziava con la sua cucina, con i prodotti della sua salumeria, con il suo vino.
Lo psichiatra Emilio Lupo, la filosofa Annamaria Frau, il Sociologo Lucio Varriale, un’altra mente aperta e curiosa che faceva ricerche di psicologia sociale indagando su di noi, cercando le risposte giuste a quell’ansia di riscatto sociale che la sezione del Pci di Secondigliano centro teneva nelle sue stanze, a volte anche rischiando di essere derubati delle macchine da scrivere dei pensionati, come accadde quando con Giovanni Manzo decidemmo di non chiudere gli occhi sulla piaga della droga e della malavita e di sperimentare una pedagogia politica di prossimità. Fallimmo. Pur se personalmente recuperai le macchine da scrivere, le porte della sezione si chiusero e fuori la porta restò, senza alcun argine quella che è oggi è divenuta l’egemonia culturale camorristica.
Chiusa quella spregiudicata sezione aperta al disagio giovanile, si aprì un’esperienza politica di grande impegno e umanità. Ed eravamo un gruppo e una forza. Ricordo il coraggio della donna Linda Sorbillo, fiera del suo femminismo in un ambiente ancora curiale, la bontà del bibliotecario Eduardo Savarese, che con la sua macchina ci portava dovunque, l’allegria di Gennaro Chinelli e la pacatezza di suo fratello Mimmo, l’anarchico chimico Michele, il serio amministratore, la curiosità intellettuale del sindacalista Federico Libertino, i componenti del gruppo musicale “Rumori e Canti” che andò anche in tournee con Gianni il violinista, Massimo e Vincenzo i chitarristi, Gaetano il cantante ed io nel ruolo del bravo presentatore, il disoccupato D’Ambra che diventò lavoratore e testimone di come la fatica sia fonte di stanchezza e di soddisfazioni.

NANA’
Qualche mese fa, recandomi al municipio di Secondigliano, andai a fare visita a Nanà, così come tutti chiamiamo Anna Brandi. L’ho trovata forte nello spirito e provata nel fisico. Nanà è una donna del popolo che ha vissuto come una pasionaria l’abbattimento e la ricostruzione di un rione popolare fatiscente organizzando la partecipazione dei cittadini nell’operazione di rigenerazione urbana ritenuta non più rinviabile.
Tutto iniziò per impulso del nostro sindaco comunista, Maurizio Valenzi. Come ho già ricordato, a noi ragazzi e ragazze di quel tempo ci aprì gratuitamente le porte dei teatri, delle biblioteche, dei concerti, del cinema. E agli abitanti, sempre gratuitamente, una rete territoriale dell’assistenza e dell’istruzione, di cui il professore Calì ed Emilio Lupo, assieme a tanti altri e altre ne furono esempi.
La domanda è: perché è finita, cosa è intervenuto per far arretrare il sistema pubblico dei servizi alla persona alle attuali conclusioni? Il terremoto. Un affare che poi si sarebbe stato valutato in 80 mila miliardi di vecchie lire. Un anno fa, prima che scoppiasse la pandemia Covid 19, quando mi recai a trovare Nanà, nel suo Rione dei Fiori, tutto quanto era appassito di malavita e la sconfitta della sinistra, delle sue visioni costituzionali svanite. Ancora una volta disintegrate dalla camorra. Come lo è stata l’altra esperienza straordinaria di amministrazione comunale con il sindaco Antonio Bassolino, che nel ’93 puntò sull’orgoglio dei napoletani per togliere dalle strade le macerie materiali e dall’anima il nosipuotismo.
Anni settanta, anni ottanta e la macchina del compagno Eduardo Savarese, un uomo tenero e disponibile, finì portata via dalla polizia scientifica perché scena del delitto. Un raid cinematografico. Di fronte alla sezione. Due uomini crivellati di colpi sul cofano e uno a terra. Morti ammazzati. Cutolo contro l’Alleanza di Secondigliano. Morti di camorra. In un decennio, seimila morti. Che si andavano a sommare ai morti di terrorismo. Ai morti di eroina. Ai morti per eccesso di velocità.

Nanà


Con il rapimento di Ciro Cirillo, assessore regionale all’urbanistica capimmo e non reagimmo con le forze necessarie per diffondere nella nostra comunità la gravità di quella trattiva tra la Repubblica, le Brigate rosse e la camorra. E noi, fermi nella nostra fermezza, sapevamo e non avevamo le prove, citando Pier Paolo Pasolini, che l’obiettivo era distruggere la speranze di un cambiamento di governo nel Paese. A tutto ciò, aggiungiamo nella macedonia la crisi industriale e l’aumento della disoccupazione e della povertà, la sconfitta del compromesso storico, la sconfitta al referendum sulla scala mobile e il varietà socialista di feste, coca e rock roll è via negli anni della Milano che ha soffocato l’Italia nei debiti e nella corruzione.
La mia generazione già non amava la politica, noi dalla sezione di Secondigliano centro abbiamo visto passare tutto questo e deperire le nostre costruzioni. Abbiamo mancato la prova del governo per decimazione.
Per tornare alla domanda: chi erano i comunisti italiani? Un Noi.

Gennaro Prisco

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1 commento

  1. Noi del monterosa venivamo etichettati i miglioristi Ranieri – Mola – Francese – Lupo -Petrella-Sarracino-Guarino-Carnevale il qui presente Esposito Giovanni.Racconto alcuni momenti di una mia diretta esperienza personale ossia il vivere tra la gente comune ed il Partito. Sotto l’aspetto personale dello scrivente e’ stata un’esperienza formidable che mi ha aiutato a non prendere la strada sbagliata nell’era del boom della massima espansione della droga. Al tempo stesso venivo quotidinianamente bersagliato dall’ubbidienza cieca in qualita’ di militante dai denigratori dell’antipolitica. Eppure nonostante tutto questo in me prevaleva la passione e le condizioni di sottosviluppo del quartiere Scampia e grazie a questi valori e principi si aprivano grandi discussione nelle ardi di Partito entrando nel merito delle proposte.Ricordo alcuni punti che trattavano la riqualificazione ambientale:abbattimento delle Vele;Contratti di quartiere; universita’;inps;collocamento;commissariato di Polizia di Stato;scuola Alberghiera, assegnazione struttura sportiva Arci Scampia altre strutture pubbliche date in locations per attivita’ produttive. Obiettivi raggiunti.Stavamo insistendo sulla sistemazione del campo Rom di via Cupa Perillo, problema difficile e complesso, purtroppo con l’avvento del Partito liquido furono chiusi ed abbandonati i luoghi di aggregazione che alimentavano l’entusiasmo per migliorare la qualita’ della vita a Scampia. Concludo nel dire che la gente non dimentica cio’ che e’ stato fatto con le lotte ed a mio modesto avviso quella contaminazione positiva e’ stata seminata e deve continuare a vivere attraverso le generazione di Scampia. Riprendere I temi ambientali RIGENERAZIONE DELLE PERIFERIE Grazie per avermi dato la gioia di arricchire la storia di Secondigliano Miano San Pietro a Patierno e ripeto spero tanto che venga ripresa con tanta forza dai cittadini di Napoli Nord.

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