SOCCAVO 1975
…il settantacinque del secolo scorso per me è stato l’anno della svolta. L’anno della mia maggiore età ed il momento in cui incontro in modo “organico” il PCI. Gli anni ’70 erano anni tumultuosi, di sedimentazione di quanto avvenuto dopo il ’68 soprattutto studentesco, le lotte operaie dell’anno successivo, il lento affermarsi dei diritti civili, segnato dalla vittoria al Referendum su divorzio del 1974. Il Paese cambiava rapidamente assieme a tutto il mondo. Eroiche lotte di liberazione di cui il simbolo era stato il lontano Vietnam segnalavano l’esaurimento di un ordine coloniale ed imperialista ormai logoro, si accompagnavano ai rigurgiti potenti di forze reazionarie e retrograde, protagoniste di atrocità volte a difendere i vecchi assetti e, ad alimentare nuove tentazioni di dominio assoluto ed autoritario. Erano anche gli anni delle stragi e dei colpi di stato accompagnati dal sorgere di follie terroriste che fornivano una risposta distorta all’impazienza per il cambiamento, la trasformazione, attingendo al mito della rivoluzione tradita.


Le prime esperienze politiche avvenivano durante le mie frequentazioni scolastiche, di studente dell’I.T. S Armando Diaz, con due anni di ritardo sulla normale tabella di marcia. Esperienze in cui la militanza antifascista diventava atto concreto e quasi quotidiano, impattando con la storia del mio Istituto scolastico. Le suggestioni “rivoluzionarie” erano molteplici, sballottato dalle sirene dei tanti movimenti “extraparlamentari” germogliati come funghi attorno al primo riflusso post ’68.
Quell’anno era iniziato con la vittoria (parziale) delle sinistre al Comune di Napoli che avrebbe portato all’elezione a Sindaco di Maurizio Valenzi .
Assistendo ai cortei di auto imbandierate di rosso che festeggiavano la storica vittoria, ci era sembrato naturale accodarci. Così mi capitò per la prima volta di arrivare in via dei Fiorentini, sede della federazione napoletana del PCI ed ascoltare gli interventi di Valenzi e di Andrea Geremicca, segretario del Partito a Napoli. I due parlavano dalla soletta in cemento che allora proteggeva l’ingresso della palazzina. Non capivo un cazzo di quanto accadeva e non conoscevo quasi nessuno ma condividevo il clima di entusiasmo. Non riuscivo neanche a capire gli slogan ritmati dalla folla che ripeteva “Valenzi Sindaco” nella confusione. Quella incompresa invocazione ritmata per me diveniva solo un coro di parole incomprensibili, le quali mi sembravano allora un vezzo francese. Così rimasi per mezz’ora a gridare “Valè si, si, co, co” prima di scoprire l’arcano. Poi, con il trascorrere delle ore, arrivò la tragica notizia della morte di Jolanda Palladino, colpita da un ordigno incendiario mentre partecipava ad uno dei tanti cortei festanti.


Il 1975 fu anche l’anno del mio primo viaggio “fuori porta”, avventuroso. Con il compagno Benito Macci, mio vicino di casa, partimmo, armati di diecimila lire in due ed un barattolo di melenzane sott’olio fornito dalla famiglia Macci, verso Firenze, affidati all’autostop. Restammo in giro per circa una settimana, dormendo per strada e non lavandoci quasi mai prima di tornare all’ovile. L’ultimo tratto da Roma a Napoli, lo facemmo in un pullman noleggiato dai compagni di “Avanguardia Operaia” del Rione Traiano (casa nostra), organizzato per partecipare ad una manifestazione promossa da A.O., PDUP e Lotta Continua indetta per solidarizzare con la “Rivoluzione dei Garofani” portoghese e diventata protesta Antifranchista, a fronte dell’ennesimo assassinio perpetrato da quel regime. Altro battesimo del fuoco di quel giorno avvenne di fronte alla coesione militare del collettivo Autonomo di via dei Volsci, che vedeva all’opera per la prima volta, tra molotov e spranghe.
Tornati, Benito che era già iscritto al PCI, sparì per partecipare alla festa provinciale dell’Unità, organizzata per la prima volta alla Mostra D’Oltremare. Esattamente un anno prima della grandiosa Festa Nazionale dell’anno dopo, quando ero già parte integrante della famiglia.


Arrivai alla Sezione di Soccavo del PCI, in via Giustiniano, anche qui aggregandomi anche qui, seguendo l’onda e accodandomi al gruppo dell’attacchinaggio volontario, vero rito collettivo di quei tempi, in cui noi giovani neofiti incontravamo per la prima volta i militanti comunisti.
Presi la tessera del Partito (avevo ormai 18 anni) assieme a quella della Federazione Giovanile, contemporaneamente e cominciai quel percorso che mi avrebbe cambiato la vita.
La Sezione, poi intitolata a Carlo Niola, anziano dirigente comunista di forgia tipicamente amendoliana, allora ancora vivente, si popolava in modo impetuoso di nuove energie ribollenti le quali indirizzavano le loro ansie e speranze al Partito Comunista di Enrico Berlinguer, il padre di quella nostra generazione. Arrivavamo a quell’incontro con l’Italia onesta, intelligente e colta che si batteva contro e conviveva con l’Italia corrotta, bacchettona e ignorante, come aveva descritto Pasolini, investendo tutto il nostro entusiasmo e l’impazienza di buttare per aria quella coltre di vecchiume, ipocrisia e clientelismo che ci circondava nell’Italia democristiana.
Cominciai a frequentare sempre più spesso i locali di via Giustiniano cominciando a conoscere i Compagni più anziani, i “dirigenti” e quel magma di umanità che si ritrovava spezzando i vecchi steccati. Forze nuove assieme alla vecchia guardia che aveva attraversato la storia del Paese delle discriminazioni e dei licenziamenti politici, che aveva pagato un prezzo salato alla Guerra Fredda ed all’Anticomunismo. I fascisti picchiavano e aggredivano ma i preti utilizzavano il pulpito per discriminare e le opportunità venivano offerte solo a chi non si ribellava.
Mi abbeveravo, affascinato dalle storie del passato, dalle vite di quelle persone tanto che i difetti che pure esistevano, mi sembravano piccoli peccati veniali. Era chiaro che eravamo i buoni. Noi eravamo contro l’oppressione e lo sfruttamento, nati per difendere i più deboli, i “proletari” contro l’avidità umana incontrollata che, nella sua potenza, spostava le montagne ma calpestava le umani genti, sotto la stella polare padronale della ricerca del profitto.


Un mondo semplice “in ultima istanza”, in cui mi era semplice trovare posto. Ma le mie riflessioni e fantasie non sarebbero bastate senza l’esempio vivente dei protagonisti, come il mio primo e fondamentale mentore, Vincenzo Luongo. Chi era Vincenzo Luongo detto “O’ Re?” ex operaio edile vecchia maniera poi diventato operaio Eternit di Cavalleggeri, in quella fabbrica che fu la sua carnefice per il mesotelioma che alla fine se lo portò via. Vincenzo era quasi analfabeta ed aveva imparato a leggiucchiare seguendo l’Unità di cui era grande diffusore. Passai parecchie domeniche ad arrancare dietro di lui, mentre portavamo a casa della gente il giornale fondato da Antonio Gramsci. In quelle domeniche l’Unità vendeva più del Corriere della Sera. Mi arrovellavo sul senso e sul perché ad alcune famiglie portavamo anche il Sorrisi e Canzoni TV, sembrandomi la cosa uno sfregio al rigore della militanza. Solo dopo capì quando Vincenzo passava a raccogliere la sottoscrizione ricevendo quelle 10 o 5 mila lire anche dalle famiglie del Sorrisi. Quelle sottoscrizioni che lo portarono assieme alla grande capacità di diffusione, al viaggio premio in Unione Sovietica, da cui tornò con un paio di camice hawaiane ed innumerevoli poster di Lenin di cui riempì le pareti della Sezione. Le sue composizioni erano una delle cose che mi affascinavano di Vincenzo, quando lo vedevo passare ore ad evidenziare con la vernice rossa i titoli dell’Unità, onorando quotidianamente l’aggiornamento del giornale murale, affisso all’esterno della sezione. La scarsa consuetudine con la lettura e le dimensioni dei caratteri facevano diventare tutte le notizie degne di rilievo e le pezzature rosse si moltiplicavano. Una leggenda antica voleva che quando Togliatti, rispondendo ad una domanda di un giornalista che gli chiedeva conto del contributo dei Comunisti italiani alla diffusione della cultura nel Paese, avrebbe detto: “abbiamo insegnato ai contadini meridionali di non togliersi il cappello quando passava il proprietario terriero di turno”. A me sembrava proprio una bella risposta e l’associavo a Vincenzo Luongo “O’ Re” ed al suo giornale murale.

Ma ancora chi era Vincenzo Luongo? Il quale si chiudeva in sezione ad aggiustare sedie malconce ed a produrre mobiletti in stile riutilizzo edile analfabeta. A Vincenzo piaceva il vino con cui si accompagnava durante i suoi lavoretti. Non era neanche un grande estimatore della cultura riferita alla differenza di genere (anche se aveva sempre un atteggiamento e comportamenti di grande rispetto per le donne). Il riferimento riguardava soprattutto la sconosciuta consorte. In un altro mondo, in un altro universo dove non esisteva il PCI, Vincenzo forse sarebbe diventato un vecchio avvinazzato dedito a picchiare la moglie e mai avrebbe tentato di articolare un ragionamento come faceva negli interventi in sezione. Era diventato un maestro artigiano che quando parlava della Sezione diceva “questa è la casa dei lavoratori, qui si mangia pane ed onore”. Lui era un Comunista e con il suo esempio ed insegnamento che divenni comunista italiano anche io, conoscendo poi i tanti Vincenzo Luongo in giro per le Sezioni del Partito.

Pasquale Trammacco

La foto di apertura: 27 settembre 1975. Maurizio Valenzi è stato appena eletto Sindaco di Napoli. Interviene nella Sala dei Baroni del Maschio Angioino. Archivio Mario Riccio-Infinitimondi


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3 commenti

  1. Abbiamo tutti avuto come mentori politici maestri artigiani , contadini e operai qualificati. Quelle erano le categorie sociali prevalenti tra i dirigenti del partito formatesi negli anni 50-60.Per me c’è stato un mastro muratore che si chiamava Pasquale Di Palma. Loro ci hanno dato l’esempio. Noi della generazione successiva siamo stati capaci di fare la stessa cosa? Occorre ancora tempo per capirlo.

  2. Gianfranco caro potresti contattare peppe cortese lo trovi su fb per raccontare l’esperienza della sezione luigi di Rosà di santerasmo

    1. Author

      Lo faccio con piacere caro Ulderico.

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