‘Carpiamo’ e rilanciamo dalla pagina FB 100 storie per i 100 anni dalla fondazione del PCI a Capua questo scritto dell’Amministratore della pagina Gianfranco Ventriglia a cui va il nostro ringraziamento.

Donne e politica.
ho letto più volte questo ricordo di una Compagna: Michelina Vinciguerra stesso mese ed anno di nascita di mio padre; settembre 1930, sicuramente si conoscevano, certamente militanti nello stesso partito.
Un invito a leggerlo premettendo che sul sito di centoannipci Caserta vi è un ricordo simile a cura di Paola Broccoli ma le conclusioni dell’articolo, pubblicato sul Mattino nel 2004, sono diverse e per certi versi “tristi” in quanto ci ricordano come la lotta delle donne anche a sinistra e irta e piena di difficoltà.
Non saprei se non riportate o se l’articolo è successivo in ogni caso la finalità è sottolineare la difficolta, gli ostacoli ed il coraggio delle militanti ieri come oggi.
Leggendolo tra l’altro ho scoperto che Linda D’onofrio era sua figlia e con lei ho condiviso il periodo della FGCI di Amedeo Marzaioli e Enzo De Angelis. Il bello della vita.
Riporto le frasi finali dell’articolo solo per invitare alla lettura ed ai commenti. La sua storia è bellissima, io la trovo bellissima.
Sensi di colpa? «Un po’. E ancora un po’ di amarezza: oggi sono tranquilla, ma vedere che mi hanno dimenticata, come se non fossi mai esistita… Almeno Tonino un riconoscimento dalla Cgil l’ha avuto: una targa al primo segretario Fiom nel centenario Cgil, “con stima”. È qualcosa…».

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Il Mattino, 25 aprile 2004
Una «rossa» a Maddaloni:
così la pasionaria finì al Villaggio di don Salvatore

Chi dice che i ragazzi di oggi crescono troppo in fretta dimentica quanto rapidamente siano dovuti diventare uomini e donne quelli che hanno conosciuto la guerra, la fame, la paura. Il 25 aprile di 59 anni fa Michelina Vinciguerra aveva 15 anni e una storia già dura e densa da raccontare: il padre perso a dieci anni, la mamma cinque anni dopo («di dolore e di stenti»), a 16 il matrimonio con Antonio D’Onofrio, fascista di famiglia e antifascista per scelta. Il giorno del matrimonio (nella chiesa di via Renella, con la dispensa necessaria ai minorenni e il distintivo comunista, mentre sul corso Trieste sfilava il primo grande sciopero contadino per la riforma agraria) Michelina – figlia di una camicia nera morta in combattimento e prima di quattro sorelle – già da un anno era iscritta all’Associazione delle Ragazze Italiane, il primo gradino della rigida trafila d’ingresso nel Pci. Al quale si iscrisse nel ’45 e per i vent’anni successivi: come finì lo racconterà lei stessa. Ma procedendo con ordine, a partire proprio dalla morte di quel papà che si era fatto da volontario tutte le guerre, dall’Africa alla Spagna, per poi morire in Albania.
«Quando lo seppi scoppiai in lacrime. Il gerarca che venne a darci la notizia mi disse: non piangere bambina, a voi penserà la patria». E come ci pensò? «In nessun modo. Mamma non fece in tempo neppure a vedere la pensione. E quando chiese aiuto al fascio per iscrivermi al ginnasio si sentì rispondere: mandala alla scuola agraria. Mamma però ce la fece lo stesso, non so come, e mi mandò al Giordano Bruno di Maddaloni, dove vivevamo».
Quando cominciò a maturare una coscienza politica?
«Al ginnasio. Prima ero soprattutto arrabbiatissima coi fascisti per quello che ci avevano fatto. Il resto venne fra lo studio e la conoscenza di alcune persone, a cominciare dalla figlia di Corrado Graziadei che era mia insegnante».
Di qui l’iscrizione al Pci? «Fra la decisione e l’iscrizione passò quasi un anno: all’epoca dovevi riempire una scheda di adesione, fartela firmare da tre garanti (per me furono Salvatore Pellegrino, Ciccio Lugnano e Sorrentino) e poi aspettare, con la richiesta affissa all’albo, che nessuno ponesse veti. Allora funzionava così».
Comunisti puri e duri. «A un convegno a Cremona Amendola scese dal palco e mi apostrofò: non ti vergogni a venire qui con lo smalto alle unghie? Dopo un anno cominciò l’industrializzazione e le operaie erano tutte truccate».
Era il ’45, i partiti erano già organizzati?
«Qui da noi la guerra era finita: dopo le Quattro Giornate di Napoli, dopo Monte Carmignano e Bellona, i tedeschi arretrarono e il fronte si spostò a Cassino. Il 25 aprile gli americani dalla Reggia governavano da un pezzo».
E i fascisti? Scomparsi? «La casa del fascio di piazza Matteotti, quella dove oggi c’è la Asl, la presero i compagni di Maddaloni, mio marito Tonino in testa. Ma senza problemi, pacificamente. Gli americani arrestarono diversi fascisti, li mandarono al campo di Paduli».
Qualcuno parla di una sorta di resistenza anche qui, di Margherita Troili si dice fosse una staffetta partigiana.
«In provincia c’erano antifascisti militanti: la Troili a Capua, i Lombardi a Sessa, a Calvi la famiglia Innocenzo che era stata in clandestinità e dava asilo ai compagni. Io ero troppo piccola, carabinieri e caserme li ho conosciuti dopo».
Per via di quella tessera al Pci.
«Facevo soprattutto sindacato: all’inizio i Coltivatori Diretti, poi la Federbraccianti, sono stata responsabile provinciale fino al ’58, poi ancora le tabacchine che riuscii a strappare alla Cisl portandole nella Cgil, le alimentariste. Il primo contratto provinciale dei braccianti porta la mia firma, anche quello dei panettieri. Ma appena organizzato un settore, il partito mi spostava e al mio posto metteva un altro, sempre un uomo. Nel frattempo io entravo e uscivo dalle caserme: per gli scioperi, per l’occupazione delle terre incolte, per le manifestazioni».
A guerra finita, la pacificazione era di là da venire.
«Erano anni difficili. Lavoro non ce n’era, le garanzie occupazionali erano tutte da conquistare. Fra noi c’era un clima prerivoluzionario, ma da Roma arrivavano dirigenti e deputati a raffreddare gli animi».
Non il suo, la sua rivoluzione sindacale continuava.
«Frequentavo la scuola di partito a Rocca di Papa, entrai persino nella commissione agraria, quella di Emilio Sereni. Ma quando tornai a Caserta, apriti cielo, pareva che chissà come mi fossi meritata quell’incarico, inutilmente ambito da tanti uomini». Nessun rapporto coi fascisti ma coi comunisti nemmeno è stato facile. «Infatti all’inizio degli anni ’60 mi sono dimessa. Ero consigliere comunale a Maddaloni per la terza volta, mollai tutto». Perché? «Andai in crisi: i figli che lasciavo soli fino a notte fonda, le difficoltà di chi come me faceva bracciantato politico mentre la buona borghesia comunista viveva come il resto della borghesia. E l’ostilità verso mio marito, che nel ’56, dopo i fatti di Ungheria, era passato al Psi e loro chiamavano traditore».
Un addio senza rimpianti? «Mai pensato di ritornare sui miei passi, se è questo che intende. Ma ho pianto tutti i giorni per quindici anni». I genitori li ha persi col fascismo, gli ideali col comunismo? «Non mi faccia piangere ancora. Comunque no, gli ideali restano. Io e mio marito apparteniamo a quella generazione che andava a piedi a Valle di Maddaloni per il congresso di sezione con Paolo Bufalini o arrivava in lambretta a Villa Literno dove c’era il mercato delle braccia. Non sono cose che passano».
Ma i contatti col partito li ha chiusi. «A Caserta sì, a parte Paolo Broccoli ma lui è un’altra cosa, anche a lui ne hanno fatte tante. Restano i compagni di fuori, a cominciare da Giorgio Napolitano che stimo e mi stima».
Poi che fece, si ritirò a casa? «Andai a lavorare al Villaggio dei Ragazzi. La Dc non mi voleva ma don Salvatore D’Angelo tenne duro, nonostante gli scioperi degli spazzini, praticamente contro di lui, organizzati da Tonino. E non mi chiese mai nulla di politico. Oggi mia figlia Linda è preside in quella stessa scuola». Linda, che da ragazza è stata segretaria provinciale Figc, mentre Enzo è stato consigliere, Gianluigi impegnato anche lui. Figli d’arte… «Sempre boicottati. Hanno pagato per me, è questa la cosa che non potrò mai perdonare al partito». Sensi di colpa? «Un po’. E ancora un po’ di amarezza: oggi sono tranquilla, ma vedere che mi hanno dimenticata, come se non fossi mai esistita… Almeno Tonino un riconoscimento dalla Cgil l’ha avuto: una targa al primo segretario Fiom nel centenario Cgil, “con stima”. È qualcosa…».
Marinella Carotenuto, dal Mattino online

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